Teoria della politica economica e riforma costituzionale
Alessandro Petretto
Professore emerito di finanza pubblica
La discussione sui pregi e difetti della legge di riforma costituzionale che andremo a accettare o respingere il 4 dicembre prossimo, si è prevalentemente caratterizzata per una diatriba, più o meno dotta, tra costituzionalisti, con qualche limitata concessione al punto di vista dei politologi. Totalmente assente è il ragionamento economico tra i contendenti. Eppure la teoria economica studia la valutazione dei mutamenti degli assetti istituzionali, quindi anche delle Costituzioni, da molto tempo e con argomentazioni molto rigorose. Soprattutto la teoria economica dà indicazioni di metodo che possono risultare molto utili.
Consideriamo, per semplificare, un aspetto della riforma costituzionale attualmente in discussione, il procedimento legislativo, ovvero il meccanismo con cui sono varate le leggi ordinarie, quindi non costituzionali, in un regime di bicameralismo asimmetrico o differenziato, che attribuisce questo compito ad una sola Camera. Sono queste leggi che vedono modificare il meccanismo decisionale rispetto al regime vigente. Come è possibile valutare, con le categorie economiche, sotto il profilo della convenienza sociale, questo diverso modo di approvare le leggi, al fine di esprimere razionalmente un si o un no al prossimo referendum?
La teoria economica, in merito alle istituzioni in generale, distingue il loro disegno dalla loro riforma, a seconda che si discuta delle loro caratteristiche a regime, oppure di mutamenti anche parziali delle loro caratteristiche di partenza. Il primo è un concetto statico, mentre il secondo è un concetto dinamico. Sia il disegno che la riforma possono essere il risultato di una decisione parlamentare o di democrazia diretta, con una specifica regola maggioritaria, oppure possono fregiarsi dell’aggettivo “ottimale” quando, nel caso del disegno, si individua il procedimento legislativo preferito dalla società, secondo una social welfare function che aggrega le preferenze collettive. La riforma è invece ottimale quando mutamenti istituzionali determinano un incremento, anche limitato, di tale welfare function rispetto alla posizione di partenza. Per inciso, la welfare function è una di quelle invenzioni degli economisti che li hanno tenuti occupati per quasi un secolo discettando sulla sua esistenza o meno. Tuttavia è utile per ragionare nei termini sui quali ci siamo avventurati. Naturalmente non è detto che un disegno (riforma) frutto di un voto a maggioranza, per quanto qualificata, sia ottimale. Aumentando il quorum ci si avvicina però all’ottimo ma solo sulla carta, dato che, se il quorum, non si raggiunge rimane lo status quo, ovvero la riforma è nulla e il disegno è quello della configurazione esistente dell’istituzione, bella o brutta che sia. La riforma è ottimale, migliorativa, quando i vantaggi dei beneficiati superano gli svantaggi degli altri, con pesi sociali attribuiti a vincitori e vinti a seconda del grado di meritorietà sociale. Operazione difficile ma possibile, come dimostrano le riforme fiscali, ad esempio della struttura delle aliquote dell’imposta personale sul reddito, basate proprio su questo principio che individua il concetto di avversione sociale alla disuguaglianza. Non ce ne accorgiamo ma la scala delle aliquote progressive sottintende quanto una società valuta i ricchi rispetto ai poveri.
Ma torniamo alla distinzione tra disegno ottimale (DO) e riforma ottimale (RO), immaginando di disporre di una misura per caratterizzare l’aggettivo. Intanto il DO è per definizione unico, in quanto il migliore tra tutti quelli ammissibili. La stessa cosa non si può dire di una RO. E questo spiega perché tutti gli esercizi empirici, non teorici, sulle politiche economiche abbiano rinunciato al profilo di DO. Questo non è certamente un concetto vano e irrilevante, ma per puntare ad un DO bisogna porsi l’obbiettivo modificare per intero l’istituzione, la Costituzione nel nostro caso, con l’implicita ammissione che ciò che non si corregge è ottimale. Per esempio, i fautori della “migliore Costituzione del mondo” danno allo status quo la qualifica di DO, intoccabile fino alla fine dei giorni. Il DO è una specie di configurazione istituzionale definita in laboratorio con tutti pezzi incastrati insieme e al posto giusto. Mentre per puntare ad una RO basta correggere parzialmente l’istituzione e domandarsi se con queste parziali correzioni si raggiunge un miglioramento rispetto allo status quo.
Per gli economisti è molto importante tenere distinti i due piani di analisi, quello del disegno da quello della riforma, perché consente di evitare equivoci. Per esempio, se è una RO che abbiamo come obiettivo, ha poco senso criticarla perché manca qualcosa, non contempla altre correzioni ritenute indispensabili. Non sono infrequenti affermazioni del tipo: “…..voterò no perché la legge non abolisce le regioni a statuto speciale!” Ma perché non si è proceduto alla meritoria abolizione delle RSS? Perché la discussione che ne sarebbe nata avrebbe pregiudicato il raggiungimento del consenso politico su altri aspetti, come la riforma del procedimento legislativo, ritenuti prioritari. In altri termini, una RO non è detto conduca al DO, ma essendo migliorativa è pur sempre socialmente desiderabile. Naturalmente, se si punta ad una RO, implicitamente si ammette che lo status quo, almeno in certi segmenti, non sia il DO.
Il concetto economico di riforma poi sottintende il fatto, ampiamente riconosciuto dalle evoluzione teoriche più recenti, che le Costituzioni sono “istituzioni endogene”, cioè connaturate al contesto storico, sociale e politico in cui vengono disegnate e anche riformate. Uno dei risultati più importanti di questa letteratura è che le leggi costituzionali si modellano a seconda della distribuzione della ricchezza nella società e della presenza o meno di istituzioni economiche (Banca centrale, Antitrust, Regolazione indipendente) e politiche (partiti) evolute.
La legge costituzionale che saremo chiamati a confermare o rigettare con il referendum è, secondo questa accezione, una riforma che parte dal presupposto che, allo stato dei fatti, la Costituzione vigente non delinea un disegno ottimale e che quindi è opportuno correggere. Lascia aperti diversi aspetti, sui quali non interviene, dato il carattere di riforma parziale. L’aspetto più significativo è, come detto, il mutamento del procedimento legislativo con l’abbandono del bicameralismo perfetto.
Poiché non siamo chiamati a confrontare due diverse riforme, ma ad accoglierne una o mantenere il bicameralismo perfetto vigente, per votare si è sufficiente verificare che la nuova configurazione del procedimento legislativo, tramite il bicameralismo differenziato, faccia fare un passo aventi, anche infinitesimale, rispetto al bicameralismo perfetto vigente. Francamente mi sembra un esercizio molto facile.
L’attuale procedimento legislativo determina almeno questi inconvenienti:
- L’allungamento dei tempi di approvazione delle leggi a causa della doppia lettura;
- L’impiego molto diffuso dei decreti legge per dare al governo la possibilità di attuare il programma e i decreti legge sono un’anomalia rispetto alla democraticità della procedura;
- L’abuso del ricorso alla “fiducia” (una sorta di monocameralismo coatto) per accelerare l’iter e interrompere la “navetta” Camera-Senato-Camera ecc
- La complessità dei testi legislativi, con l’esempio emblematico della Legge di Stabilità con un solo articolo e mille commi per approvarla in blocco, con il solo voto sulla fiducia;
- Il mantenimento di mille parlamentari per svolgere una funzione che in altri paesi è condotta dalla metà
- E così via…
E’ veramente difficile che tutto ciò sia compatibile con un disegno ottimale di Costituzione.