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Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati
seduta dell’Ufficio di Presidenza, 26 marzo 2019
Audizioni informali in relazione all’esame in sede referente della proposta di legge costituzionale Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari (C. 1585), nonché della proposta di legge Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari (C. 1616)

Testo dell’audizione del prof. Salvatore Curreri
(Professore in Istituzioni di Diritto pubblico, Libera Università degli Studi di Enna “Kore)

1. La riduzione del numero dei parlamentari, quando eccessiva come quella attualmente in discussione – da 630 a 400 deputati e da 320 a 205 senatori, inclusi i cinque a vita, per un taglio complessivo del 36,5% – rischia di produrre effetti politici, elettorali, parlamentari e, più in generale, ordinamentali tutt’altro che marginali o tecnici, come apparentemente può sembrare a chi la riduce ad una mera questione numerica o di costi della politica.
Ciò, indipendentemente dal sembrare essa inserirsi in un più ampio disegno riformatore (referendum propositivo, vincolo di mandato, autonomia regionale differenziata) che, se non attentamente calibrato, rischia di mettere in discussione la centralità del ruolo del Parlamento nell’ordinamento costituzionale.

2. A livello di rappresentanza politica la riduzione del numero dei parlamentari ovviamente provoca l’aumento del numero medio di abitanti per parlamentare eletto: a) alla Camera si passa da 96.006 a 151.210 (vale la pena ricordare che il testo iniziale dell’art. 56 Cost. fissava tale rapporto in un deputato per 80 mila abitanti); b) al Senato da 188.424 a 302.420 (311.879 se si sottrae la popolazione delle regioni per cui c’è un numero fisso di senatori). Anche qui va ricordato che il testo iniziale dell’art. 57 Cost. fissava tale rapporto in un senatore ogni 200 mila, con un numero minimo di sei senatori (eccettuata la Valle d’Aosta con un solo senatore), poi dalla legge cost. n. 2/1963 elevato a sette con le eccezioni del Molise (2) e sempre della Valle d’Aosta.
Tale aumento si presta ad una duplice considerazione a seconda se si consideri la rappresentanza politica del singolo parlamentare riferita a livello territoriale o nazionale (sia detto per inciso: la rappresentanza politica ha sempre una base territoriale, altrimenti il collegio elettorale sarebbe nazionale, perché compito del parlamentare è anche esprimere le istanze del territorio conformandole alla visione nazionale dell’interesse generale.
Sotto il primo profilo, infatti, pare evidente che l’essere eletto da un numero complessivamente maggiore di abitanti indebolisce la rappresentanza politico-territoriale, aumentando il distacco tra elettori ed elettori, rafforzando (per eterogenesi dei fini?) il divieto di vincolo di mandato.
Sotto il secondo profilo, invece, il numero ridotto dei parlamentari eletti rafforza il vincolo che li lega ai partiti di cui hanno condiviso il programma politico e che per questo li hanno candidati e sostenuti dinanzi agli elettori. Sotto questo profilo, dunque, pare evidente che meno saranno i parlamentari, più rigida sarà la disciplina di gruppo e di partito cui saranno sottoposti.

3. A livello elettorale la riduzione del numero dei parlamentari di per sé rende più difficile il pieno dispiegarsi di una effettiva rappresentanza, numericamente adeguata e territorialmente diffusa.
Difatti, la riduzione del numero dei parlamentari da eleggere nelle circoscrizioni, e quindi nei collegi plurinominali, aumenta il numero di voti necessari per conquistare un seggio e quindi, presumibilmente, i costi delle campagne elettorali). Tale implicita soglia di sbarramento renderebbe il sistema di fatto meno proporzionale e più maggioritario.
Ciò vale soprattutto ovviamente per le circoscrizioni senatoriali (il cui numero minimo di eletti è stato ridotto a 3), alcune delle quali significativamente penalizzate: si va da una riduzione percentuale minima del 14,4% del Trentino (da 7 a 6 grazie ai seggi fissi) e del 33.3% di Toscana (da 18 a 12) e Veneto (da 24 a 16) ad un massimo del 57,1% di Basilicata e Umbria (entrambe eleggerebbero non 7 ma 3 senatori). Lo stesso dicasi alla Camera, dove le diminuzioni in percentuale dei deputati eletti nelle circoscrizioni elettorali andrebbero da un minimo del 33.3% di Molise (da 3 a 2), Umbria (da 9 a 6) e Basilicata (da 6 a 4) ad un massimo del 40% di Lazio 2 (da 20 a 12) e Sicilia 1 (da 25 a 15).

4. A livello parlamentare la riduzione del numero dei parlamentari implicherebbe ovviamente la modifica in senso proporzionale di tutti quegli articoli dei regolamenti parlamentari che fanno riferimento ad un certo numero di deputati o senatori (così come avvenuto nei consigli regionali), a cominciare, ad esempio, di quelli occorrenti per la costituzione dei gruppi parlamentari e, nella sola Camera, delle componenti politiche del gruppo misto (ma potrebbe essere ulteriormente ridotto l’attuale minimo di tre deputati per costituirne una autorizzata ex art. 14.5 reg.?).
Non è però solo un problema di riduzione quantitativa, ma anche di qualità del lavoro parlamentare. Vi è, infatti, il fondato rischio che una così drastica riduzione rischi di peggiorare, anziché migliorare, l’organizzazione dei lavori parlamentari e, di conseguenza, di appesantire, anziché snellire, e rendere meno anziché più efficienti lo svolgimento dei lavori parlamentari,
L’opinione secondo cui tale riduzione consentirebbe di adeguare il numero dei parlamentari al ridimensionamento della funzione legislativa del Parlamento, a seguito del trasferimento di numerose materie alla potestà normativa delle Regioni e delle istituzioni europee, innanzi tutto non tiene in adeguato conto il rischio che ciò penalizzi le altre funzioni che il Parlamento è chiamato a svolgere, parimenti (se non in prospettiva più) importanti: ispettiva, di controllo, indirizzo, di raccordo istituzionale. Pare evidente, infatti, che in una visione più generale del ruolo del Parlamento, lo svolgimento ottimale di tali funzioni richiede una congrua disponibilità di parlamentari, così da evitare che ognuno di essi sia gravato da incombenze tali da non poter essere tutte insieme svolte in modo adeguato. Non sempre, dunque, vale l’assioma per cui in pochi si lavora meglio che in tanti.
Ciò vale in particolare per i gruppi parlamentari poco numerosi, espressione di partiti che hanno di poco superato la soglia di sbarramento del 3% e che quindi potrebbero contare su una pattuglia di deputati e senatori esigua da suddividere tra i vari organi collegiali (commissioni, giunte, organi consultivi).
In questa prospettiva, una considerazione specifica merita il problema della ripartizione dei componenti di un gruppo parlamentari con un numero esiguo di membri fra le commissioni parlamentari permanenti (qualora il loro numero rimanga invariato: quattordici). Infatti, tali gruppi:
a) verrebbero esclusi da alcune commissioni alla Camera, dove prevale il principio di proporzionalità su quello di rappresentatività, giacché un deputato non può far parte di più commissioni (art. 19.3 R.C.). Tale divieto fu, infatti, introdotto nel 1966 proprio per evitare che un gruppo parlamentare composto da pochi eletti (magari autorizzato) acquistasse una forza superiore a quella effettiva (ad esempio un gruppo di cinque deputati poteva essere rappresentato in quattordici commissioni, come se fosse composto da un numero pari di membri);
b) al contrario, verrebbero sopravvalutati al Senato, dove, dove a causa dell’esigenza di dover ripartire un numero inferiore di eletti tra un numero eguale di commissioni, prevale il principio della rappresentatività su quello della proporzionalità, giacché un senatore può far parte contemporaneamente di un massimo di tre commissioni (art. 21.2 R.S.). Potrebbe, quindi, accadere che la maggioranza, tale per un margine esiguo di senatori, non sia tale in tutte le commissioni permanenti (v. parere Giunta per il regolamento del Senato, dell’11 ottobre 2011, per cui i senatori che restano fuori dalla distribuzione proporzionale, c.d. eccedentari, vanno ripartiti dal Presidente tra le varie commissioni così da garantire i rapporti tra maggioranza e opposizione).

5. A livello ordinamentale, la riduzione del numero dei parlamentari
a) non influisce in modo decisivo sull’elezione del Presidente della Repubblica, giacché i 58 delegati regionali (benché in proporzione maggiori rispetto agli altri membri delle camere riunite: 605 anziché 930) hanno una connotazione partitica e non regionale
b) piuttosto aumenta il peso percentuale dei senatori a vita (5 su 200 anziché su 315) e, di conseguenza, il loro peso politico, talora decisivo come l’esperienza di questi ultimi anni dimostra. Rispetto a tale ipotesi, la determinazione del limite massimo dei cinque senatori, che codifica l’attuale prassi, non sembra influente.

6. Alla luce di quanto sopra, se è permesso avanzare un sommesso suggerimento, riterrei opportuno diminuire la percentuale della riduzione del numero dei parlamentari così da evitare o, quantomeno attutire, gli effetti negativi sopra segnalati: a) ad esempio 500 deputati e 250 senatori; b) oppure optare in Costituzione per un numero di deputati e senatori non fisso ma flessibile: o in proporzione alla popolazione (soluzione originaria) oppure determinando un numero minino e massimo la cui individuazione sarebbe rimessa alla legge elettorale, il che consentirebbe eventualmente seggi aggiuntivi a titolo di premio di maggioranza (simil Germania); c) oppure ancora, lasciando il numero inalterato ma tagliando le indennità parlamentari (se l’obiettivo principale è il contenimento dei costi della politica).
Similmente, profitterei dell’occasione non per diminuire ma abrogare del tutto i parlamentari eletti all’estero non solo perché la loro riduzione (appena 8 deputati e 4 senatori: veramente pochi!) rende ancora più debole la loro già di per sé ridotta rappresentatività, ma soprattutto perché si tratta di una riforma che ha dato cattiva prova di sé, anche per i gravi problemi causati.

7. Infine, in un’ottica più di sistema – se non si vuole toccare il tema di quell’unicum che è il nostro bicameralismo paritario, e quindi il tema del ruolo e delle funzioni del Senato (il rapporto dei cui membri di uno a due rispetto al numero dei deputati lascerei inalterato in mancanza di tale riforma sistemica) – si potrebbe profittare di tale occasione quantomeno per modificare i requisiti per eleggere ed essere eletti al Senato, frutto di una distinzione anacronistica.

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