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Rivista N°: 2/2015
DATA PUBBLICAZIONE: 15/05/2015
AUTORE: Augusto Barbera*
LA SENTENZA RELATIVA AL BLOCCO PENSIONISTICO: UNA BRUTTA PAGINA PER
LA CORTE
Come è noto, con la “Sentenza Cartabia” (la n. 10 del 2015), la Corte aveva sancito
la illegittimità costituzionale della “Robin Tax” ma nel contempo, stabilendo effetti pro futuro,
aveva escluso il rimborso delle imposte pagate dai contribuenti, in nome degli equilibri di bilancio
valorizzati dal nuovo art. 81 Cost. Essa aveva suscitato diversi dubbi, il principale dei
quali così riassumibile: come conciliare la dichiarazione di illegittimità con la non applicazione
retroattiva degli effetti della stessa, in particolare a quanti avevano promosso la questione
incidentale davanti alla Corte? Dubbio non banale (e forse superabile; a ben altre ardite ricostruzioni
la Corte ci ha abituato nei suoi sessanta anni di attività). Per il resto, trovavo pienamente
condivisibili le parole della Corte in ordine al potere della stessa di regolare gli effetti
delle proprie decisioni, atteso che “l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di
illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio
ai sensi dell’art. 81 Cost.”. D’altro canto – aggiungeva la Corte – “già con la sentenza
n. 260 del 1990, tale principio esige una gradualità nell’attuazione dei valori costituzionali che
imponga rilevanti oneri a carico del bilancio statale. Ciò vale a fortiori dopo l’entrata in vigore
della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 … che ha riaffermato il necessario rispetto dei
principi di equilibrio del bilancio e di sostenibilità del debito pubblico (sentenza n. 88 del
2014)” .
Con la “Sentenza Sciarra” (la n. 70 del 2015) – che non cita minimamente il nuovo
art. 81 – gli interrogativi sollevati dalla sentenza n. 10/2015 sembrano superati ma altri , e
ben più pesanti, possono sollevarsi.
Un primo interrogativo: la legge Monti-Fornero (decreto-legge n. 201/2011) , come è
noto, prevede il blocco degli adeguamenti all’inflazione per le sole pensioni superiori a tre
volte al minimo del trattamento Inps, vale a dire 1.217,00 euro mensili netti (successivamente
la legge di stabilità per l’anno 2014 ha tenuto conto dell’esigenza di meglio modulare i sa-
* Emerito di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Bologna. — augusto.barbera@unibo.it
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crifici attraverso un blocco ulteriormente differenziato per fasce di reddito). Perché la Corte
dichiara oggi illegittima la sospensione di detti adeguamenti automatici che in altra epoca
(con la sent. 316 del 2010), e allorché non era esplosa in tutta la sua virulenza la crisi economica
e finanziaria degli anni successivi, aveva considerato legittimo? In quella occasione
la Corte ebbe ad affermare che “spetta al legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento
dei valori costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico,
alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze
minime di protezione della persona”. Aveva tuttavia aggiunto – va ricordato anche
questo – che “la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la
frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti
tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità … perché le pensioni,
sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione
ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.
Un secondo interrogativo: quale la differenza fra il blocco degli adeguamenti del trattamento
pensionistico e il blocco delle progressioni stipendiali dei settori “non contrattualizzati”
del pubblico impiego (sent. n. 304/2013 sul personale diplomatico; sent. n. 310/2013 sui
docenti universitari; sent. n. 154/2014 sul personale della Guardia di finanza) disposto dalla
legge 122 del 2010, dichiarato non illegittimo dalla Corte sempre in nome del nuovo art. 81
Cost.? Nella sentenza n. 310/2013 la Corte fa di più richiamando la direttiva europea 8 novembre
2011, n. 2011/85/UE relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri.
Nella stessa Sentenza, peraltro, la Corte dovette giustificare perché con una precedente (e
assai discussa) decisione, la n. 223 del 2012, l’analogo blocco previsto per i magistrati era
invece da considerarsi incostituzionale.
Quattro categorie – i pensionati, i dipendenti pubblici non contrattualizzati, i magistrati,
i contribuenti – quattro diversi regimi nella distribuzione dei sacrifici.
Ma non è solo questo il punto che mi preme mettere in rilievo. La Sentenza fa riemergere
due interrogativi che non possono non preoccupare quanti hanno a cuore il buon funzionamento
della giustizia costituzionale. Il primo è il riemergere delle polemiche degli anni
Ottanta e dell’ inizio anni Novanta sul costo delle Sentenze della Corte (accese le proteste
degli allora Ministri del Tesoro Carli, Andreatta, Amato, Dini) allorché l’incalzante estensione
ad opera della giurisprudenza costituzionale delle “integrazioni al minimo” delle pensioni di
varie categorie escluse da tale beneficio portò ad un impennata della spesa e del debito
pubblico (il culmine fu rappresentato dalla sentenza n. 240/1994 che ebbe un costo di circa
30.000 miliardi di lire). Da lì presero le mosse non pochi propositi di limitare i poteri della Corte
.
L’altro riguarda la ricorrente polemica circa la usurpazione da parte della Corte di poteri
che spetterebbero al potere politico e il sostanziale superamento dell’art. 28 della legge
n. 87/1953 che esclude dal controllo di legittimità “ogni valutazione di natura politica e ogni
sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”. Non è facilmente superabile,
infatti, l’obiezione che non alla Corte ma al legislatore spetta “il bilanciamento” fra la tutela
dei diritti e delle aspettative dei cittadini da un lato e le risorse finanziarie disponibili dall’altro.
Fino a che punto il richiamo al rispetto di “ragionevolezza e proporzionalità” compete al giuR
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dice di legittimità in un campo ove, peraltro in armonia con gli “obblighi comunitari” di cui
all’art. 117 Cost., Governo e Parlamento abbiano concordato il limite del deficit e sottoposto
agli organi comunitari un programma di rientro? E comunque il bilanciamento fra i diritti e le
aspettative dei cittadini e le risorse disponibili spetta ad un Parlamento democraticamente
eletto oppure ad un ristretto numero di giudici? Siamo qui di fronte a diritti sociali incomprimibili
e non sottoposti alle variabili finanziarie (e a questo sembrerebbe accennare la Sentenza
con un richiamo al secondo comma dell’art. 3 Cost.)? Premesso che la rimozione del blocco
non riguarda i pensionati con una pensione corrispondente a tre volte il minimo e che l’effetto
della Sentenza è comunque quello di restituire tutto a tutti anche a chi gode di trattamento
pensionistico assai elevato, se così fosse la Corte costituzionale si sarebbe allontanata dalla
sua giurisprudenza più recente, che in tema di diritti di prestazione ha sempre distinto tra il
riconoscimento della situazione soggettiva e la sua concreta attuazione, discrezionalmente
modulabile dal legislatore. L’equilibrio di bilancio – lo dico anche ad alcuni colleghi da tempo
critici nei confronti del nuovo art. 81 – non è un freddo dato contabile ma il mezzo attraverso
il quale si possono porre in equilibrio i vari “diritti”. Non mi riferisco solo ai “diritti” delle generazioni
più giovani ma alla politica redistributiva che gli organi democraticamente legittimati
potrebbero svolgere (certo non è detto che lo facciano) a favore di altri soggetti (disoccupati,
giovani , titolari di pensioni minime ecc.) .
Non voglio comunque entrare nel merito della decisione; mi limito solo a ricordare che
non convince il richiamo all’art. 38 Cost.: la stessa Corte con la pur generosissima sentenza
n. 240/1994 aveva sancito che “l’art. 38 Cost. non esclude la possibilità di un intervento legislativo…
ma richiede un bilanciamento, modificabile nel tempo a seconda delle circostanze,
tra i valori personali inerenti alla tutela previdenziale e “i principi connessi alla concreta e attuale
disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni
di spesa”.
Gli allarmi per i conti dello Stato si susseguono, il Ministero ha contraddetto le cifre
fornite dall’Avvocatura dello Stato nell’Udienza e non esclude che per l’effetto di cumulo fra i
vari anni si arrivi a più di 14 miliardi. Tenuto conto che il rimborso integrale porterebbe o ad
un aumento del deficit, se imputato al 2015, o a quello del debito se imputato agli esercizi
precedenti e che in entrambi i casi scatterebbe una pesante procedura europea di infrazione,
alla fine il “costo” della Sentenza sarà attenuato, se non riassorbito, da qualcuno degli interventi
legislativi su cui il Governo sta riflettendo (e non manca qualche costituzionalista che
prospetta un fantasioso ricorso alla Corte di Lussemburgo). Ma a quel punto – mi chiedo – la
Corte vedrà riaffermata la propria autorevolezza o la sua decisione sarà considerata alla
stregua, come afferma qualche commentatore, di una “fastidiosa decisione”, da superare con
ogni mezzo? E quale sarà la reazione di quanti confidano nella decisione di annullamento
operata dalla Corte? La stessa Sentenza sembrerebbe (ma forse è solo un’impressione) invocare
un intervento legislativo allorché parla di “esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”,
quasi si trattasse di “difetto di motivazione”, magari da superare, come nella prassi
amministrativa , ri-deliberando ma meglio motivando (ma in realtà pare che tale illustrazione
fosse stata operata non nella Commissione Lavoro citata nella Sentenza ma nella Commissione
bilancio).
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Ma è forse possibile trovare una qualche spiegazione alla decisione della Corte. Non
è da escludere che la stessa abbia voluto evitare la strada della “Sentenza Cartabia” per un
ulteriore motivo. Non dobbiamo trascurare che con la sentenza n. 116 del 2013 aveva dichiarato
la illegittimità costituzionale del taglio alle pensioni, disposto dall’art. 18, comma 22 bis
del decreto legge 6 luglio 2011, n. 8 (approvato dal governo Berlusconi) che superano i 90
mila euro lordi annui, “perché di natura sostanzialmente tributaria”, e aveva permesso che le
trattenute effettuate dall’estate 2011 dovessero essere restituite a chi aveva subito il decurtamento.
La “Sentenza Sciarra” non ha voluto probabilmente operare un trattamento differenziato
fra titolari di pensioni di importo elevato sottoposti al contributo e i titolari di pensioni
spesso modeste sottoposte alla mancata rivalutazione; la conseguenza è che per salvaguardare
queste ultime ha dovuto estendere gli effetti della decisione anche alle pensioni più elevate,
con un doppio beneficio per queste ultime.
Il governo parrebbe intenzionato ad escludere queste ultime dal rimborso ma correndo
non pochi rischi di ulteriori ricorsi. Da ricordare, in proposito, che l’art. 1, comma 486, della
legge n. 147/2013 (promossa dal Governo Letta) ha riconfermato il taglio suddetto alle
pensioni , ri-modulandolo in parte, ma specificando che è a titolo di contributo di solidarietà
da devolvere alle Casse dell’Inps; ma non sono mancate le questioni di legittimità costituzionale
(sollevate all’inizio di quest’anno, in sede giurisdizionale, dalle sezioni regionali Veneta
e Campana della Corte dei Conti), stavolta in relazione all’art. 136 Cost. per violazione del
giudicato costituzionale.
Infine altre tre domande. La prima. Secondo indiscrezioni giornalistiche la decisione
sarebbe stata assunta da sei giudici contro altri sei ma sarebbero prevalsi i primi per il voto
del Presidente . Avrebbe senso – questa è una domanda vera, alla quale non so rispondere
– riprendere l’antica proposta di ammettere la dichiarazione di illegittimità di una legge solo
con il voto di 2/3 del Giudici? Otto su dodici in questo caso, dieci su quindici nel plenum. E
non sarebbe, comunque, venuto il tempo di ammettere, come in tante altre Corti, almeno
l’espressione delle opinioni dissenzienti?
Altra domanda: sarebbe auspicabile una modifica dell’art. 30 della legge n. 87/1953
(che ha una copertura nello stesso art. 137 Cost.) stabilendo (come in altri Paesi: in particolare
Germania, Austria, Portogallo) che soprattutto in caso di incidenza sull’equilibrio di bilancio
la sentenza della Corte operi pro futuro o comunque lasci al legislatore il tempo necessario
per intervenire? Si potrebbe tuttavia evitare un intervento legislativo se la Corte
stessa riprendesse e approfondisse la strada tentata con la “Sentenza Cartabia”. Tale orientamento
potrebbe (non restringere ma) ampliare e rafforzare il suo potere di intervento
sull’attività legislativa. Lo rafforzerebbe – io credo – perché farebbe venire meno la cautela
non poche volte impiegata (per esempio con la sent. 256/1992, a proposito del finanziamento
del servizio sanitario) per evitare possibili conseguenze destabilizzanti delle proprie decisioni.
Tale cautela – come sappiamo – si è più volte manifestata, in relazione agli interessi
coinvolti, attraverso “moniti”, attraverso sentenze di “accertata ma non dichiarata incostituzionalità”,
attraverso “additive di principio” ed attraverso altre formule ancora. Perché non
percorrere con più determinazione la strada della “Verfassungsunvereinbarkeit” – la dichiarazione
di “incompatibilità” da parte del Giudice costituzionale, distinta dall’annullamento (NiR
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chtigkeit), riservato ai casi di più grave e immediato contrasto – che ha dato positivi risultati
in Germania?
La terza. Dopo tanta retorica sul “dialogo fra le Corti”, non sarebbe auspicabile che le
Corti stesse trovassero ispirazioni comuni nel valutare i vincoli europei? Mi riferisco a quella
italiana e a quella portoghese (una cui sentenza fece subito abbassare, nel 2012, il rating da
parte della Agenzia Fitch), che hanno sottovalutato le esigenze del rigore finanziario in nome
di veri o presunti principi costituzionali, a quella tedesca che ha più volte messo in discussione
i vincoli europei in nome della centralità del parlamento nazionale e dei principi del Grundgesetz,
e alla Corte di giustizia europea che, dal canto suo, ha obbligato il Governo italiano
ad incrementare sensibilmente la spesa in nome di normative europee (cfr. la Sentenza del
26 novembre 2014 nelle cause riunite C-22/13 ed altre relativa al personale docente e amministrativo
della scuola).
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