In Diario

 

Opinione di Augusto Barbera, Stefano Ceccanti e Vincenzo Lippolis

sulla costituzionalità della composizione dei Consigli delle Province, prevista dal Disegno di legge A.C.1542 

 

 

Una premessa. Vanno distinti gli aspetti di legittimità costituzionale da quelli di merito.  Sul piano dell’opportunità si possono avanzare dubbi sulle soluzioni adottate dal progetto A.C.1542, ma non necessariamente essi si traducono in dubbi di legittimità. Noi, ad esempio, avremmo astrattamente preferito che fosse accelerata la soppressione delle amministrazioni provinciali secondo quanto previsto nel Disegno di legge costituzionale A.C. 1543 e come suggerito nella Relazione finale della Commissione dei “Saggi”, anche se concretamente ci rendiamo conto dell’esigenza del Governo di procedere nella fase transitoria per evitare di dover eleggere di nuovo enti destinati ad essere soppressi. Preferiremmo altresì evitare, peraltro, una definizione in astratto dei servizi di “area vasta”,  da definire invece in relazione alla disciplina dei singoli servizi e in riferimento ad ambiti territoriali non necessariamente coincidenti .

A tal proposito ci permettiamo di suggerire di estendere (sia pure in via provvisoria) anche  alle Città metropolitane la disciplina-ponte prevista per le Province , evitando l’ architettura assai complessa (e ci si consenta  difficilmente applicabile)   disegnata nel Capo I.

 

Sulla presunta incostituzionalità. Il Disegno di legge A.C. 1542 al punto 3 dell’art.1 definisce le Province (“fino all’entrata in vigore della riforma costituzionale”) “enti territoriali di secondo livello” e prevede , a tal fine, che gli organi delle stesse siano formati da Sindaci : il Presidente eletto dall’assemblea dei Sindaci  fra i Sindaci con voto ponderato; il Consiglio provinciale costituito da Sindaci dei Comuni del territorio (con una composizione che può variare secondo scelte affidate allo Statuto).

E’ stata eccepita  la  incostituzionalità delle modalità diverse dall’elezione diretta  poggiando  su due argomenti :

a) sul “principio autonomistico”,  come  tratto  da  una lettura degli artt. 5 e 114 della Costituzione ;

b) dai vincoli che deriverebbero, in base al primo comma dell’art.117 della Costituzione,  della “Carta europea delle autonomie”, in particolare del comma 3 dell’art.2, anche sulla base della recente raccomandazione del Consiglio d’Europa 337/2013.

Partiamo da questo secondo argomento. E’ evidente nella Carta europea l’intento di valorizzare il rapporto diretto con i cittadini delle realtà comunali, spesso espressione di autonomie plurisecolari, e di quelle regionali che hanno conosciuto, anche grazie all’integrazione sovranazionale , un accresciuto spessore anche legislativo, ma da ciò non sembra trarsi ne’ un obbligo generalizzato di costituire enti intermedi ne’ che essi debbano necessariamente essere eletti direttamente.

In molti dei Paesi firmatari della Carta o non esistono enti intermedi o sono entità corrispondenti alle nostre Regioni (soprattutto nelle democrazie dell’Est) o  sono organizzati sulla base di elezioni di secondo grado, o comunque indiretto: valgano a quest’ultimo proposito  gli esempi paradigmatici della Costituzione spagnola (dove, dopo la citazione con gli altri enti nell’art. 137, la provincia è poi disciplinata con elezione indiretta dall’art. 141) o l’ordinamento previsto dalla Finlandia (la cui Costituzione nell’art. 128 prevede sia i comuni sia “realtà amministrative più ampie dei municipi” sotto la dizione comune di auto-governo, che poi però la legislazione ordinaria distingue nettamente riservando l’elezione diretta solo ai comuni). Peraltro la Spagna si è sentita esplicitamente in dovere di chiarire la non estensione dell’elezione diretta alle province nello strumento di ratifica depositato l’8 novembre 1988, mentre la Finlandia, che pur ha aderito in seguito (il 3 giugno 1991) non si è affatto sentita obbligata a farlo.

Quanto alla raccomandazione suddetta, essa ha solo intenti persuasivi rivolti al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che non risulta aver dato alcun seguito a interpretazioni omogeneizzanti  della Carta europea.

 

E’  alla Costituzione italiana quindi che dobbiamo fare esclusivo riferimento. Prima della riforma dell’art.114 del Titolo V nessun dubbio in dottrina circa la possibilità per il legislatore ordinario di procedere  alla trasformazione delle Province, atteso che l’art.128 le considerava “enti autonomi” “nell’ambito dei principi fissati da legge generali della Repubblica”. Il dubbio nasce ora dalla nuova formulazione del Titolo V, che le rende, al pari dei Comuni e delle Città metropolitane, enti costitutivi della Repubblica. La lettura più corretta di tale disposizione non è quella di stabilire una equiordinazione tra gli enti in essa menzionati (in tal senso esplicitamente la sent. 274/2003 della Corte costituzionale), ma di costituire una ricognizione dell’articolazione della Repubblica e di garantire gli enti in essa indicati da una soppressione mediante legge ordinaria.

A parte i dubbi sulla corretta interpretazione di tale disposizione, che non ha precedenti in altri ordinamenti,  non può essere accettata una lettura omogeneizzante degli enti locali ivi considerati. Anzi la revisione del Titolo V della Costituzione ha inteso aprire spazi importanti di differenziazione, anziché’ di omogeneizzazione, degli enti locali. La previsione delle città metropolitane, ad esempio, può tradursi  in diverse soluzioni: o in nuovo ente locale che si limita a sostituire  le Province oppure in un nuovo ente locale che nelle aree circoscritte  sostituisce i Comuni oppure in un nuovo ente   che coesista con entrambi , sia con i Comuni sia con la Provincia (e potrebbe anche trattarsi di “un ente di governo”, non di un ente locale,  come previsto nel Disegno di legge costituzionale 1543 e  come già previsto in alcuni ordinamenti europei).

Tale lettura è confermata dall’art. 118 che valorizza esplicitamente “il principio di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” e che la Corte costituzionale ha utilizzato in più occasioni, riallacciandosi  peraltro a precedenti che risalgono ad epoca anteriore al Titolo V (n.378/2000 ma già 83/1997/e 286/97)  . A ciò si aggiunga l’implicito riconoscimento da parte  dello stesso Titolo V  della legge costituzionale n. 2 del 1993 che ha affidato alle Regioni a Statuto speciale la competenza “esclusiva” (e non più concorrente)  in materia di ordinamento degli enti locali, in linea con l’art. 15  dello Statuto della Sicilia che aveva soppresso le amministrazioni provinciali e dato vita ai “liberi consorzi comunali”. Se fosse vero che l’art.114, nella nuova formulazione, avesse fissato le Provincie  come elementi costitutivi della Repubblica nella loro configurazione tradizionale,  senza possibilità di differenziazioni, ne deriverebbe l’estraneità della Regione Sicilia rispetto all’ordinamento repubblicano  (e della stessa Regione Sardegna cui viene riconosciuto dallo Statuto il potere di dare vita a nuove Province).  In ogni caso i principi introdotti con il Titolo V – come più volte affermato dalla Corte (per esempio n.103/2003 e 274/2003) – si applicano alle Regioni a  Statuto speciale solo in quanto ne amplino le competenze. In tale direzione si è mossa la  giurisprudenza costituzionale. La sentenza 106/2002,  che ha impedito di estendere ai Consigli regionali il nome di Parlamento, si è mossa nel senso di valorizzare le differenze tra i livelli rappresentativi anziché’ in quella dell’omogeneizzazione.

In breve: i margini di eventuale differenziazione degli enti intermedi, per composizione degli organi di governo e per funzione, anche a Costituzione invariata, restano  ampiamente a disposizione del legislatore ordinario
.

La Sentenza 238/2007 (ma prima anche la sent. n. 378/2000) ha respinto la tesi secondo cui esisterebbe un nucleo di funzioni proprie delle Province che ad esse sarebbero “storicamente attribuibili” in quanto espressone di “collettività vaste” e quindi intangibili. La “innegabile” discrezionalità riconosciuta al legislatore , aggiunge la Corte, esclude che possa utilizzarsi il “criterio storico…per la ricostruzione del concetto di autonomia provinciale e comunale” .

E’ stato  obiettato che la soluzione prevista dal progetto in questione, a prescindere dalla natura delle Province quali elementi costitutivi della Repubblica,  sarebbe comunque in contraddizione con il principio autonomista in quanto – viene aggiunto – esso sarebbe inscindibilmente legato alla elezione  diretta degli organi di governo degli enti che ambiscono a definirsi “autonomi”.

A  parte  la presenza nell’ordinamento di organi dotati di autonomia non legati ad alcuna forma di elezione diretta va considerato in riferimento agli enti locali che alla base del principio autonomista, fissato dall’art. 5 della Costituzione, c’è solo il necessario riconoscimento della capacità di “autogoverno” delle comunità locali ma non le modalità attraverso le quali tale autogoverno deve esprimersi (un riconoscimento di un “nucleo storico di “libertà locali “ secondo la sentenza n.52 del 1969). Può, infatti,  esprimersi nelle forme tradizionali dell’autonomia politica, direttamente collegandosi a scelte operate dal corpo elettorale a scrutinio diretto,  ma può anche esprimersi attraverso elezioni di secondo grado. Tale, riteniamo , può ritenersi un Consiglio formato dai Sindaci del territorio ovvero , come previsto in alternativa  dal punto 4 dell’art. 12 , su eventuale decisione statutaria, attraverso una elezione del Consiglio  da parte dei sindaci, cui riconoscere , ovviamente , un voto ponderato in relazione alla popolazione rappresentata.

 Attraverso i Sindaci , peraltro eletti direttamente,  dovrebbero ritenersi rappresentate non le amministrazioni comunali ma le popolazioni locali,  sia pure per il tramite  degli amministratori comunali. Ove così non fosse si realizzerebbe una sorta di “consorzio obbligatorio” fra Comuni. Ci poniamo  tuttavia un interrogativo: fino a che punto in zone politicamente omogenee l’assemblea di Sindaci rappresenta l’intera popolazione?  Onde evitare che le popolazioni  siano non adeguatamente rappresentate potrebbe essere previsto che una quota di componenti il Consiglio andrebbe scelta dai Consiglieri comunali del territorio garantendo la presenza  delle minoranze dei Consigli?

Ma a parte questo aspetto problematico riteniamo non condivisibile il citato dubbio di legittimità costituzionale. Non è privo di rilievo, peraltro, che sul piano formale l’elezione “a suffragio universale e diretto” sia prevista solo per l’elezione della Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica  (art. 56 primo comma e art.58)  e (ma in modo inequivoco  solo dopo la riforma del Titolo V) per i Consigli regionali .

In ogni caso tale composizione  non spezza il vincolo legittimante della sovranità popolare. Basti ricordare in proposito l’elezione di alcuni rami del Parlamento, in diversi regimi democratici,  attraverso elezioni di secondo grado, come nel caso del Senato Francese o attraverso una composizione affidata ai vertici dei Laender come nel caso  del Bundesrat tedesco, di cui non può essere messa in discussione la loro natura di componenti essenziali della dialettica democratica (per il Bundesrat qualche voce di dottrina ne mette in discussione la natura di organo parlamentare ma non quella di organo di rappresentanza democratica).

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