Democrazia competitiva versus assemblearismo
Il dibattito Renzi-Zagrebelsky è stato buono, con duellanti capaci di non scadere a strillatori da talk show. Se mai lungo e, nella seconda parte, troppo tecnico.
I due non potevano essere più diversi: per cultura, formazione, età. E s’è visto: immediato e diretto Renzi, di fioretto ma smaliziato Zagrebelsky. Partito all’attacco, ha finito professorale assai. I minuti spesi su “munus” e “doppio munus”, raffinato riferimento canonicistico al mandato dei senatori-consiglieri (con Mentana perplesso che temeva per lo share), sono risultati esilaranti quanto incomprensibili ai più.
Ma chi ha assistito anche solo in parte al duello, ha potuto farsi un’idea di cosa davvero divide il campo del “sì” dal campo del “no”: due diverse concezioni della democrazia e delle istituzioni.
Renzi e i fautori del sì credono nella democrazia competitiva alla Schumpeter: gli ordinamenti contemporanei sono governati dalla maggior minoranza; ed è il corpo elettorale (non le negoziazioni partitiche) che, di norma, decide quale. E’ una posizione ripresa già dal programma del Pds del lontano 1994: legge elettorale a doppio turno, scelta esplicita della maggioranza e del presidente del Consiglio come per l’elezione diretta dei sindaci; rafforzamento dell’esecutivo; governi di legislatura; via il bicameralismo paritario con una seconda camera delle Regioni). Come si vede, la riforma 2016.
Zagrebelsky, al contrario, contesta che le elezioni debbano produrre oltre che rappresentanza anche governo (tanto meno “la sera delle elezioni”); evoca Rousseau e fa capire che la democrazia maggioritaria all’inglese non gli piace; propone una democrazia fondata sul concorso di tutte le forze politiche in assemblee legislative nelle quali gli uni cercano di convincere gli altri, alla Kelsen, senza distinzioni nette fra maggioranza e opposizione. Auspica un governo assembleare più che parlamentare: e considera pericolose le riforme che cerchino di realizzare quel programma di 22 anni fa, poi fatto proprio dal Pd, e anche da gran parte del centro-destra.
Di qui i timori di rischi autoritari che indignano Renzi (sconcertante il riferimento alla Repubblica Centrafricana del dittatore cannibale Jean-Bédel Bokassa, un’imperdonabile caduta di stile), basati su interpretazioni forzate delle due riforme (del tipo “chi vince prende tutto”: il che, dati alla mano, non sarebbe affatto).
Un po’ di fact checking. Renzi ha sbagliato due volte: sulla Romania (non è l’unico altro paese europeo parlamentare a bicameralismo paritario: dal 2003 ha cambiato, siamo soli); e in parte sui doppi mandati in Francia: oggi ci sono (anche tripli) per deputati e per senatori, ma sono in via di estinzione. Zagrebelsky ha sbagliato su tre punti: ha detto che le leggi con le quali il Parlamento potrebbe far valere la sua supremazia sulle regioni sarebbero bicamerali (invece sono a prevalenza Camera: se il Senato chiede una modifica a maggioranza assoluta la Camera deve dire no con la stessa maggioranza); ha detto che il Senato avrebbe competenza legislativa paritaria in materia di attuazione del diritto dell’Unione europea (ma la competenza paritaria è limitata alla sola legge ordinamentale che disciplina l’attuazione del diritto UE: errore che, con o senza malizia, fanno molti). Infine, ha lasciato intendere che per l’elezione del Presidente il quorum della metà più uno dei componenti sarebbe più garantista di quello nuovo dei tre quinti dei votanti (ma nelle 13 elezioni presidenziali la media votanti è il 98.5%: così votanti e componenti, di fatto, coincidono).
Torno alle tesi di fondo: Zagrebelsky ha insistito sull’idea per la quale ciò che non va non sono le regole, ma i politici (per cui inutile cambiarle). Il campo del “sì” pensa invece che bisogna tener conto di come le forze politiche si muovono in concreto. Per cui le istituzioni vanno aggiornate per incentivare comportamenti utili al funzionamento del regime parlamentare e favorire la governabilità, in un mondo in cui tutti corrono, e non ci aspettano. Convinti si possa assicurare così non meno, ma più democrazia.