Sul tema coppia-matrimonio
SIAMO NOI PRETI GLI INTERLOCUTORI PIÙ ADATTI?
Si parla molto, in ambienti cattolici e non solo, di che cosa è matrimonio e famiglia e di cosa non lo è e di come la legislazione civile debba porsi nei confronti delle unioni civili, addirittura equiparandole al matrimonio tra un uomo e una donna… Vorrei proporre alcune considerazioni non solo come reazione a quel che circola in giro (compresa una nuova edizione del Family Day o qualcosa di simile), ma anche per un pensiero che mi è venuto celebrando la liturgia della Santissima Trinità, che è “la famiglia di Dio” (lì dove i TRE vivono di reciproco, eterno e totale amore, tanto meraviglioso e fecondo che non lo tengono per sé ma lo fanno traboccare ad extra: sul mondo, sulla storia, sulla chiesa, su ciascuno di noi…). Bisognerebbe partire soprattutto da qui per chiedere luce su ciò che pensiamo, pratichiamo (e noi preti predichiamo) in materia di famiglia/famiglie, e quindi anche per ciò che le famiglie “doc” sono chiamate a dare in una società che ospita, in materia di matrimonio e famiglia, idee e prassi le più diverse.
Parto da una frase che ho trovato in una delle tante riflessioni cui ha dato luogo il sinodo straordinario indetto da papa Francesco: “la famiglia non è un fortino che resiste, ma una buona novella che contagia”.
Il Segretario di stato vaticano ha dichiarato che la vittoria del sì nel referendum in favore del matrimonio degli omosessuali in Irlanda è stata una sconfitta per l’umanità. Colgo la drammaticità dell’affermazione e non la discuto, ma la colloco all’interno di un atteggiamento ecclesiastico che rischia di insistere più sulla denuncia del male che sulla proposta del bene, almeno di quel po’ di bene che deve esser possibile in ogni esperienza umana. Ai tempi in cui si affiggevano alle porte delle chiese le classifiche dei film (per adulti, adulti con riserva, sconsigliato, escluso… e andarli a vedere era peccato), ricordo l’affermazione di un prete illuminato: i cattolici, anziché maneggiare le forbici della censura, perché non usano la macchina da presa per fare dei film belli, e invogliare la gente ad andare al cinema per quelli!
Su matrimonio e famiglia – in proporzioni e con conseguenze molto più vaste – forse accade qualcosa di simile. La difesa del matrimonio come dovrebbe essere (solo per i credenti? per tutti i cittadini di tutte le fedi e convinzioni, compresi quelli che fino a pochi anni fa dichiaravamo concubini?), l’accusa a chi vuol fare (o ha già fatto) qualcosa di diverso e però lo vuol chiamare con lo stesso nome e l’opposizione a disposizioni più “permissive” in sede civile diventano altrettante occasioni di accuse alla chiesa e soprattutto non favoriscono nella comunità cristiana quell’atteggiamento di ascolto, dialogo e misericordia che dovrebbe sempre accompagnare la relazione con ogni persona e gruppo umano, anche i più distanti da noi. E frenano quell’annuncio della “gioia del Vangelo” che dovrebbe caratterizzare una chiesa in uscita verso tutti i lontani, i non credenti, gli erranti, le periferie non solo geografiche…
Perché chi sono i primi evangelizzatori di chi vive realtà “altre” rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio-sacramento se non quei cristiani che nella famiglia ci credono davvero, che si sono sposati non tanto in chiesa quanto in Cristo, che cercano ogni giorno di rispondere al dono sacramentale della Grazia e viverlo in maniera creativa, liberante e diffusiva di bene? E lo fanno non con proclami né tanto meno accuse, ma comunicando almeno un po’ della ricchezza e bellezza che sperimentano, praticando l’accoglienza e il rispetto non in astratto, ma sforzandosi di ricercare – in chi sceglie o semplicemente si trova a vivere legami d’amore non riconducibili a una famiglia “regolare” e/o a un matrimonio “canonico” – un desiderio e una nostalgia di completezza e pienezza che sono propri del sacramento del matrimonio.
Credo che gli sposi cristiani – e in molti casi ciò già accade – non siano chiamati a fare i custodi gelosi di una cosa di cui hanno il monopolio, diffidando chiunque dalle imitazioni, ma a vivere nella logica della città sul monte, della luce da far risplendere di fronte al mondo (Mt 5,14-16) e quindi con una capacità attrazione e contagio nel bene, una ricchezza umile mutuabile e imitabile, uno stile di ospitalità e prossimità verso chi vive – in modo “imperfetto” e in taluni casi “non sanabile” – altri modi di essere coppia e famiglia. Credo anche che ogni desiderio di unirsi, di costruire qualcosa a partire da un amore che lega e che in qualche misura percorre la via del dono di sé, della fedeltà, del minor spazio dato all’io in favore del noi sia un pezzetto di buona notizia per la società. E che vivere l’esperienza di coppia in forza del sacramento del matrimonio è di per sé una chiamata a evangelizzare le “altre coppie”, gli “altri amori”. Non in termini di giudizio di lecito/illecito, di permesso/proibito, di naturale/contro natura, ma accostando con rispetto e amore tutto ciò che è vissuto in umanità, coscienza e talvolta sofferenza.
E aggiungo un’altra convinzione che sto maturando: su questi aspetti, come su altri, noi preti (a cui mi permetto di aggiungere anche i vescovi) dovremmo tacere di più e dare la parola ai laici credenti, prima di tutto gli sposi. Il matrimonio, io prete, lo vivo da “credente non praticante”: compete prima di tutto a chi ha la grazia sacramentale (ne è addirittura ministro!) e di conseguenza la grazia di stato evangelizzare tutto ciò che aspira ad essere famiglia, ad essere coppia e lo sarà soltanto in modo imperfetto, per carenze e limiti in parte oggettivi e in parte soggettivi. Chi giudica è il Signore, a noi tocca soprattutto accogliere, sperare, amare.
don Antonio Cecconi – giugno 2015
“su questi aspetti, come su altri, noi preti dovremmo tacere di più e dare la parola ai laici credenti, prima di tutto gli sposi.” vorrei partire da questo invito, per ritornarvi a conclusione, per fare due osservazioni alle note di don Cecconi. Spero che questo possa contribuire al dibattito.
Don Cecconi affronta il problema con un approccio pastorale. Ma il dibattito pubblico riguarda in questo momento soprattutto la formulazione di leggi dello Stato, e su questo piano si possono avere obiezioni fondate laicamente sulla Costituzione, sulla visione di società, sulla elaborazione culturale e sulle ragioni politiche, senza corti circuiti religiosi o morali di segno opposto (“sono contrario perchè credo nella famiglia voluta da Dio; ritengo peccato le altre forme di convivenza”, “sono favorevole perchè ognuno deve determinarsi da sè e la fede non deve entrare nella valutazione civile; se anche ci entrasse, dovrebbe manifestare accoglienza per ogni forma di fenomeno sociale”). Ai primi e ai secondi dovrebbe bastare la lettura integrale del documento del Concilio “Gaudium et Spes”, che 50 anni fa indicava con chiarezza i termini del rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Oggi, la contestazione alla legge sulla scuola e alla proposta Fedeli, alla legge Cirinnà sulle unioni civili, alla legge Scalfarotto, l’opposizione a aspetti concreti che tali leggi contengono e che sono ritenuti dannosi, può essere legittimamente avanzata basandosi sulla Costituzione italiana, che riconosce il valore sociale della famiglia e la tutela per ragioni non storicamente contingenti. Il fatto che questo non si sia trasformato in promozione e sostegno per le famiglie con figli è causa non secondaria del declino demografico e della crisi sociale ed economica che ne consegue. Altra cosa sono le convivenze. Se reclamano che la legge disciplini i diritti soggettivi attinenti i desideri personali, ciò può essere fatto senza “inventare” forme matrimoniali. Dibattere quali forme siano più adatte, è tema che riguarda la politica in senso stretto, senza introdurre nel dibattito accuse di fondamentalismo o di lassismo, che distolgono dal vero problema: quale limite esiste nelle società moderne tra l’individualismo, il riconoscimento sociale, la legislazione, per quanto riguarda i diritti soggettivi e le relazioni affettive ? Quali aspetti devono essere oggetto di apposite leggi, e quale è il limite oltre il quale lo Stato, in tal modo, invaderebbe la sfera privata dei comportamenti o addirittura limiterebbe la libera espressione della coscienza personale ?
Su questo piano è bene che parlino i laici, e la manifestazione del 20 giugno ha espresso in modo evidente quale sia il sentire diffuso del “popolo delle famiglie”, per il numero e per la spontaneità con cui le persone sono convenute a piazza San Giovanni.
Quanto al piano pastorale, è invece proprio compito dei sacerdoti e dei Pastori esprimersi su quel piano, che è morale e attiene alla formazione delle coscienze e alla diffusione del Vangelo. E proprio lì si esprime la sapienza della Chiesa, Madre e maestra. E con una sempre crescente consapevolezza che i due sacramenti che danno riconoscimento e impronta definitiva alla condizione di vita, il Matrimonio e l’ Ordine sacro, sono intimamente connessi per molteplici aspetti. Tanto che la riflessione pastorale e teologica sull’ uno si riflette sull’altro, per quanto riguarda la scelta di vita permanente, la non ripetibilità, la correlazione profonda con il mistero della Trinità creatrice, modello della famiglia umana tra un uomo e una donna ma allo stesso tempo della famiglia costituita da Cristo sposo con la Chiesa sua sposa.