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LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE
Francesco Occhetta S.I.

 

Il 12 aprile scorso è stata votata a Montecitorio la riforma costituzionale, che istituisce un Senato delle autonomie composto da 100 senatori, riduce i tempi per approvare le leggi, abolisce il Cnel e riordina le competenze tra Stato e Regioni. Mentre rimangono inviolati i princìpi e i diritti fondamentali della prima parte della Costituzione, il referendum di ottobre riguarderà il funzionamento della seconda parte, che concerne la «meccanica costituzionale». Si tratta di una parte tutt’altro che neutra, che va considerata come lo sviluppo del dettato costituzionale nel tempo. Il referendum è l’occasione per rifondare intorno alla Costituzione la cultura politica del Paese.

© Civiltà Cattolica pag.331-341

 

 

 

“Partiamo da qui: la riforma è di utilità del popolo italiano? Ha coinvolto le opposizioni? Davanti a questo testo rimangono invio­lati i princìpi e i diritti fondamentali della prima parte della Co­stituzione; ad essere riformata è invece l’ingegneria costituzionale della seconda parte. Se si paragona il sistema al motore di una mac­china, questa è il funzionamento «tecnico» di una democrazia che attiene alla forma di governo, alle garanzie, ai controlli e ai rapporti tra i livelli di governo. Si tratta di una parte tutt’altro che neutra, che però va considerata come l’ennesimo tentativo di sviluppo del dettato costituzionale nel tempo.

Certo, le ragioni partitiche che dividono rischiano di prevalere sulle ragioni culturali e costituzionali, che possono invece unire. Questo è, per esempio, il caso di Forza Italia, che aveva sostenuto la riforma per poi sottrarre il suo appoggio negli ultimi mesi, per una scelta politica.

Anche 56 autorevoli costituzionalisti, tra i quali Antonio Bal­dassarre, Ugo De Siervo, Gian Maria Flick, Fulco Lanchester, Va­lerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, hanno sottoscritto un appello per il No14. Altri costituzionalisti, come Giuliano Amato, Sabino Cassese, Franco Pizzetti, Franco Bassanini, Stefano Ceccanti, Mar­co Olivetti, Francesco Clementi, e più in generale una larga mag­gioranza dei componenti della Commissione di esperti nominata dal Governo Letta, a vario modo appoggiano la riforma. La sfida dovrebbe giocarsi sul piano scientifico e non politico, per confron­tarsi serenamente sulle luci e le ombre della riforma15Lo stesso mondo politico è diviso: parte del Centro-destra e il Movimento 5 Stelle non appoggeranno la riforma, mentre la mi­noranza interna al Pd di Bersani e Cuperlo ha scelto di votarla con­dizionando l’appoggio al referendum al miglioramento della legge elettorale16. Si sono anche costituiti un comitato per il No e uno per il Sì che animeranno il dibattito verso il referendum.

Enrico Letta ha invece dichiarato di appoggiare la riforma, così come Giorgio Napolitano, che il 22 aprile 2013, di fronte alle Ca­mere riunite, il giorno del suo secondo insediamento, ricordò come le riforme fossero necessarie e non più eludibili.

Anche il presidente della Bce, Mario Draghi, durante il World Economic Forum a Davos, ha richiamato l’importanza di queste: «Sono i governi che devono fare le riforme tenendo conto del mo­mento economico».

Infine, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso alla Columbia University, a New York, l’11 febbraio scorso, come garante della Costituzione si è mostrato attento al lavoro delle riforme, che ha spiegato così: «Dopo anni di dibattito il Parlamen­to sta per approvare un’importante riforma della Costituzione, che trasforma il ruolo del Senato da seconda Camera politica — con le medesime attribuzioni della Camera dei Deputati — in Assemblea rappresentativa delle Regioni e dei poteri locali».

Criteri di discernimento davanti alla riforma

Per votare a favore o contro la riforma, va anzitutto compresa la logica referendaria: l’elettore è chiamato a dare un giudizio sin­tetico e globale, avendo presente il testo vigente (quello che sarebbe confermato in caso di successo del No) e quello approvato dalla riforma Boschi, che sarebbe modificato dal Sì. Il giudizio sintetico e complessivo risulta non tanto dalla somma di dettagli, ma dalla va­lutazione della coerenza d’insieme nella volontà di ridurre i proble­mi esistenti. L’uno o l’altro giudizio non negherà la ragionevolezza della tesi opposta. Sarà piuttosto un parere favorevole o contrario sulle innovazioni del testo: la composizione, i poteri e la missione del nuovo Senato, il nuovo equilibrio tra Governo e Parlamento, il permanere di una forma di governo parlamentare che mantiene le garanzie volute nel 1948, a partire da quelle attribuite al Capo dello Stato e alla Magistratura.

Proprio perché la sovranità parlamentare e la sovranità popo­lare non sono in antitesi ma coincidono nell’istituzione del Par­lamento, il voto del referendum (che non richiede quorum) serve per verificare se i cittadini concordano sulla scelta del Parlamen­to nel revisionare la Costituzione; in questo caso se sia opportu­no aggiornare la «meccanica costituzionale», lasciando intatti i valori, i princìpi e l’identità della forma di governo parlamentare italiana.

Il secondo criterio di discernimento riguarda la coerenza e lo «sviluppo» costituzionale. Secondo questo spirito, occorre valutare se le innovazioni proposte si muovono dentro un disegno di svilup­po e di adeguamento ai tempi oppure di inopportuna demolizione del testo precedente. Anche il nuovo testo dovrà essere in grado di accompagnare lo sviluppo del Paese a ritrovarsi intorno ai princìpi della Costituzione secondo la tradizione del cattolicesimo democra­tico che l’ha originata.

Un Senato espressione delle autonomie esisteva già nel pensiero di molti costituenti cattolici e laici, e la sua necessità è stata ribadita anche dalla riforma, incompleta, del Titolo V del 2001.

Il progressivo indebolimento dei partiti nel tradurre il consenso in potere e responsabilità per la formazione dei governi ha portato il sistema — sin dal referendum elettorale del 1993 — a evolvere verso quella legittimazione diretta dei Governi su cui si era tanto speso Roberto Ruffilli.

Rimane all’orizzonte, come ulteriore elemento di riflessione, il discorso del 21 dicembre 2015 del presidente Mattarella alle alte cariche dello Stato sugli effetti di un’eventuale mancata conclusione della transizione istituzionale italiana: «Il Parlamento è impegna­to in un’ampia riforma della seconda parte della Costituzione, che mira a concludere la lunga transizione avviata da un quarto di se­colo, e purtroppo segnata da intese mancate e tentativi falliti. Non posso che augurarmi — come ho detto nel discorso di insediamento — che questo processo giunga a compimento in questa legislatu­ra. Da parte mia, non entro nel merito di scelte che appartengono alla sovranità del Parlamento e che, stando agli auspici formulati da ogni parte politica, saranno poi sottoposte a referendum popolare. Osservo soltanto che il senso di incompiutezza rischierebbe di pro­durre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere»17.

Il terzo criterio di discernimento è l’attenzione al merito, che va oltre le personalizzazioni e le strumentalizzazioni politiche del testo. L’elettorato è chiamato a pronunciarsi sul dettato, certamen­te non neutro, per approvarlo o bocciarlo, e sulle soluzioni in esso contenute. Da questo punto di vista, il testo, al di là del voto finale, non ha una stretta connotazione politico-partitica, ma è il compro­messo possibile di elaborazioni politiche diverse, sia per i vari emen­damenti che ha recepito sia per l’eredità lasciata dalla Commissione di esperti del Governo Letta.

Non si farà fatica, seguendo il primato del merito, a provare perplessità non già sulle direttrici di fondo di una riforma per molti aspetti matura da anni, che potranno ispirare ulteriori modifiche incrementali negli anni a venire, ma sui singoli aspetti. Tuttavia, rispetto a tali puntuali perplessità, va segnalato che una moder­na cultura della «manutenzione costituzionale», senza banalizzare l’importante scelta della revisione, non sacralizza tutte le soluzioni adottate e può comunque consentire, in caso di auspicabile succes­so del referendum, successive modifiche migliorative che tengano conto delle critiche più motivate.”

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Showing 3 comments
  • cesare di giovanni
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    Sono per il NO, decisamente, perché il testo dei 47 articoli sottoposti a referendum hanno la solita ambiguità narrativa, quell che ha permesso di stravolgere il titolo V e di alimentare la corruzione regionale.

  • Cesare Di Giovanni
    Rispondi

    che fine ha fatto il mio commento che è per il NO? avevo scritto che sono per il NO perché i 47 articoli su 139 sono scritti in una ambiguità narrativa che a suo tempo hanno permesso lo scempio del titolo V e hanno acuito la corruzione nelle ragioni.

    • stefanoceccanti
      Rispondi

      scusi, non l’avevo visto. L’ambiguità degli elenchi di materie può essere ridotta ma non del tutto superata in nessuno Stato decentrato. Per questo gli Stati decentrati prevedono una seconda Camera rappresentativa in varie forme dei legislatori regionali perché quel dialogo tra due Camere di rappresentanza diversa riduce il conflitto. Lo spiego più diffusamente nel mio testo “La transizione è (quasi) finita” Cordiali saluti

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