Si discute, e vorrei vedere, sulla sfiducia del consiglio comunale di Sesto alla sindaca Biagiotti. In particolare suscita sconcerto vedere che colei che fu eletta dai cittadini il 25 maggio 2014 è stata mandata a casa da un pezzo del suo stesso partito. Biagiotti riportò il 56% di voti, oltre 15.000 su 28.000 (5.000 i voti al candidato secondo, un abisso). Infatti, la sua coalizione ottenne 15 seggi su 20 (14 Pd più 1 a una lista civica): maggioranza blindata. In teoria.
La vicenda merita tre ordini di commenti: sulla funzionalità della legge elettorale; sulle condizioni del sistema partitico; sugli aspetti politico-istituzionali più generali.
Primo. La legge elettorale comunale risale al 1993, quando fu finalmente introdotta l’elezione diretta del sindaco. Nacque un modello che avrebbe fatto scuola, e che, nel complesso, ha funzionato bene: ha dato, casi eccezionali a parte, stabilità ai governi locali (prima, i meno giovani lo ricordano, fatto un sindaco, si cominciava a logorarlo per farne un altro: gli esecutivi locali duravano quanto e meno di quelli nazionali).
La legge del 1993 (vigente) è un’originale mix di presidenzialismo e parlamentarismo: infatti, da un lato i cittadini votano direttamente il sindaco, dall’altro continuarono a eleggere il consiglio comunale, la cui composizione è determinata da chi vince la gara a sindaco (i partiti della coalizione dell’eletto ricevono una maggioranza di due terzi o del 60% a seconda della dimensione del comune); le minoranze si dividono il resto. Il sistema è caratterizzato dalla c.d. clausola aut simul stabunt aut simul cadent: il consiglio comunale mantiene il potere di sfiduciare il sindaco (in ciò sta il parlamentarismo residuo), ma se lo fa, si autoscioglie. Quel che ha fatto Sesto. Anche il sindaco, dimettendosi, può costringere a elezioni anticipate il consiglio. Insomma: vivono e muoiono insieme. Questo sistema è stato poi esteso alle regioni. Presupposto (e obiettivo) è che sfiducie e scioglimenti siano eccezioni: ed è così, tanto che la legge è criticata, da alcuni, per questo. I dati: in Italia si sciolgono circa 200 comuni l’anno (su 7090); in Toscana ne vengono sciolti 5-6 l’anno (su 280); per cause politiche (dimissioni dei consiglieri o sfiducia al sindaco), però, solo 100 (e in Toscana solo 3, di cui uno solo per sfiducia negli ultimi 4 anni). Rarità, dunque: com’è logico, vuoi per garantire stabilità vuoi per rispetto del mandato elettorale. Per cui c’è da domandarsi cosa abbia fatto di così clamorosamente grave, e in un anno, la Biagiotti per meritarsi tale punizione. Ed ecco la seconda questione.
Il partiti non tengono; spesso non tiene perfino l’unico che ancora ha qualche parvenza dei partiti di massa d’un tempo, il Pd (vedi Liguria). A quanto pare non regge neanche in Toscana. Ma la questione, temo, va al di là di errori individuali, di inadeguatezze dirigenziali, di regole statutarie sbagliate, eccetera. La mia impressione è che si sia persa, da parte di molti e a tutti i livelli (non solo nei partiti), la capacità di stare insieme, accettando la premessa che ne sta alla base: che vi è un interesse collettivo superiore per cui a tutti conviene rispettare le regole minime della convivenza, in base alle quali si ragiona e si discute, poi si decide e chi vince può contare sul sostegno di tutti, inclusi quelli che han perso e a partire, comunque, dalla leale cooperazione nelle istituzioni. E invece non è più così: c’è chi pretende di comportarsi nei partiti come ci si comporta fra partiti, cioè fra avversari entro certi limiti irriducibili. Il guaio è che l’esempio è venuto dai livelli più alti: se decine di parlamentari Pd (alla Camera come al Senato) si comportano come si comportano, rifiutando la minima disciplina di gruppo fino a non votare la fiducia al Governo del loro partito, ed anzi organizzano l’opposizione sistematica su tutto, come prendersela con i rivoltosi di Sesto per aver rovesciato la Sindaca Pd?
E siccome tutto si tiene, ecco il terzo punto. Casi come questo mostrano perché sono del tutto fuori luogo e fuori tempo certi timori sul combinato disposto della nuova legge elettorale Italicum e della riforma costituzionale. Non solo esse non sono un rischio per la democrazia, ma al contrario costituiscono l’ultima speranza di far funzionare in Italia (a livello nazionale) il governo parlamentare: che ha come regola principe che l’esecutivo non può funzionare se l’assemblea così non vuole. Se no occorrerà pensare ad altre forme di governo.