La riforma costituzionale (via il bicameralismo paritario con le Camere gemelle: stessa estrazione diretta e stessi poteri, un unicum al mondo che nessuno ci invidia) è a un altro appuntamento cruciale: varata dal Senato un anno fa, approvata tal quale per l’80% del testo alla Camera, è di nuovo in Senato.
Qui la battaglia è fra chi vorrebbe rimettere tutto in discussione, ripristinando l’elezione diretta dei senatori (nel testo votato è invece indiretta, dato che il futuro Senato dovrà rappresentare – così è scritto – le istituzioni territoriali, composto, per ogni Regione, di alcuni consiglieri regionali e di un sindaco), e chi – magari disposto a qualche correttivo – vuol difendere costi quel che costi ciò su cui il Parlamento si è già pronunciato, forte anche dei regolamenti delle Camere, secondo i quali, sulle decisioni approvate da entrambe, non si torna indietro: com’è logico, se si vuole evitare un ping pong senza fine.
La riforma Renzi-Boschi coronerebbe uno sforzo trentennale, condotto invano da ogni sorta di maggioranza. Ma ha oppositori tenaci. Nascosti ci sono alcuni manipoli di senatori insensibili alle esigenze delle istituzioni e preoccupati soprattutto dei 315 seggi in palio ad ogni elezione. Gli avversari aperti si dividono in due categorie (qualcuno appartiene ad entrambe): coloro che vogliono far fuori Renzi e il suo Pd (li lasciamo oggi da parte), coloro che ritengono che la riforma – rafforzando la guida politica e la forma di governo nella direzione di una maggiore funzionalità ed efficienza – metterebbe a rischio la democrazia (chissà perché solo da noi senza ingovernabilità non ci sarebbe democrazia).
Principe indiscusso del costituzionalismo ansiogeno (quello che vede attentati alla democrazia dappertutto) e del conservatorismo costituzionale (quello secondo cui cambiare anche una virgola della Carta del ’48 sarebbe sacrilegio foriero di sventure di ogni tipo), Gustavo Zagrebelsky ha testé lanciato l’ennesimo appello contro, ha scritto, il “suicidio assistito” della Costituzione (così il titolo, non il testo, a dire il vero).
Son quarant’anni che, usando parolone ad effetto (definì le modeste proposte degli anni Ottanta “escrescenze cancerose”; mesi fa ha parlato di “punto zero della democrazia” in Italia), si oppone alle riforme istituzionali. E ora concorre a propalare la strampalata idea che trasformare il Senato nel modo che si è detto, distruggerebbe un essenziale contrappeso politico e con esse le fondamentali garanzie, in ultimo la Costituzione intera. Va detto con serena fermezza che queste sono compulsive sciocchezze.
A parte il fatto che tutto è stato il Senato in 65 anni altro che un “contrappeso” (se non di recente, e per sbaglio: con effetti disastrosi), come ha scritto Sabino Cassese su questo giornale, non c’è da avere in Italia alcun “timore del tiranno” né ora né con la riforma. Soprattutto non è il contrappeso che serve: le garanzie democratiche non van cercate nella paralisi del governo votato dai cittadini, bensì nei contrappesi veri di cui il nostro sistema è ricco come pochi: ruolo dell’opposizione, Corte costituzionale, magistratura, Regioni, libero associazionismo e stampa, Unione europea, in ultima analisi presidente della Repubblica; nonché buone leggi sui conflitti d’interesse, sulle lobbies, sulle autorità indipendenti (cose quest’ultime, però, che senza una politica robusta, non si fanno). Il Senato elettivo non c’entra: può solo privare ancora l’Italia della preziosa presenza delle istituzioni territoriali al centro del sistema.