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23 giugno Intervento di Stefano Ceccanti

(versione 22 giugno ore 23)

“Le elezioni generali dell’8 giugno e la loro lettura in chiave di Brexit”

 

  1. Qualche ragionamento sui dati elettorali: nessun vincitore nazionale e importanti divari regionali

 

Le elezioni britanniche sono state già variamente commentate in modo puntuale ed esaustivo in molte sedi. Segnalo in particolare la lettura di Giulia Caravale sul sito di Dpce: http://www.dpce.it/forum-dpce-online-westminister-is-june-the-end-of-may.html

Si tratta del secondo risultato a sorpresa dopo quello del referendum sulla Brexit, che fino agli ultimi giorni quasi nessun sondaggio (tranne quelli di You Trend) aveva previsto (l’evoluzione dei sondaggi è puntualmente ricostruita all’indirizzo Internet https://en.wikipedia.org/wiki/United_Kingdom_general_election,_2017).

L’elettorato nel quale ha pescato il Labour nel suo recupero della fase finale (l’elemento che ha modificato i sondaggi) pare essere stato quello dei giovani, dei “remainers” e dei “soft brexiters” e della working class.

 

Il titolo del mio intervento fa comunque perno su quella “e” che invita a cogliere le connessioni tra i dati e le conseguenze. Ciò mi risparmia pertanto di ripetere cose a questo punto largamente scontate.

Segnalo solo, ai nostri fini, come il risultato complessivo risulti dalla somma di tre dinamiche territoriali piuttosto diverse:

-in Inghilterra e nel Galles il trend è il medesimo di rafforzamento dei Laburisti il cui saldo netto è rispettivamente di 21 seggi e del 10,3% dei voti in Inghilterra, di 3 seggi e del 12,1% dei voti in Galles; i Conservatori salgono in voti ma perdono in seggi in modo quasi corrispondente; tutti gli altri si svuotano (o addirittura scompaiono come l’Ukip per raggiunto scopo), tranne i Liberali in Inghilterra che guadagnano 2 seggi;

-in Scozia c’è un crollo dei regionalisti anti-Brexit e sostenitori di un secondo referendum sulla secessione (meno 13,1% dei voti e 21 seggi) a favore soprattutto dei Conservatori che raddoppiano in voti (28,6%, più 13,7% e 12 seggi aggiuntivi); senza questo risultato il partito della signora May sarebbe stato in ben altre difficoltà, ma proprio esso rafforza all’interno del Partito la componente scozzese, l’unica che possa presentarsi come vincitrice;

-in Irlanda del Nord il voto si polarizza sulle estreme: il Dup aumenta del 10,3% e sale di 2 seggi, il Sinn Fein del 4,9% dei voti e di 3 seggi.

Si tratta quindi, in sostanza, di elezioni senza vincitori nazionali anche rispetto al tema Brexit (non ha vinto la May ma neanche gli avversari più forti, Snp e Libdem) e con alcune dinamiche regionali divaricanti.

In casi come questi i dati da soli non ci dicono granché sulle conseguenze politiche giacché queste ultime si giocano direttamente in Parlamento. Le elezioni di questo tipo si riducono solo, come spiegava a Duverger, a stabilire solo quante carte iniziali ha ciascuna forza politica mentre gli esiti concreti del gioco si determinano solo ex post. Un esito un po’ paradossale per un’elezione che da decenni segna il massimo di bipartitismo elettorale, oltre l’80% (42,4% dei Conservatori e 40% dei Laburisti). Come ben sappiamo l’esito immediato in seggi può però dipendere, come in questo caso, più dall’ampiezza dello scarto tra la prima e la seconda forza politica che non dalla loro somma. Si può conseguire una maggioranza assoluta anche con meno del 40% dei voti purché il resto del panorama politico sia frammentato. Ciò a patto che, in un quadro come quello, il primo partito sia comunque in grado di andare al di sopra del 37-38%.

Il tema del “Parlamento sospeso”, uscito di scesa dagli anni ’70 è ricomparso in modo credibile solo nelle due precedenti tornate, ma in quei casi, a differenza di oggi, dipendeva dalla soglia di consensi del primo partito, il Conservatore, dato che la distanza rispetto ai Laburisti era comunque rimasta abbastanza solida in tutta la campagna elettorale: nel 2010, quando si era poi effettivamente verificato, i Conservatori avevano ottenuto il 36,1%; nel 2015, quando alla fine era stato evitato, avevano conseguito il 36,9%.

Sul caso britannico richiamo comunque l’analisi di lungo periodo di Francesca Rosa “Gli assestamenti del parlamentarismo maggioritario nel Regno Unito”, pubblicato sul n.3/2012 di “Quaderni Costituzionali”.

 

  1. Forze e debolezze dei Governi di minoranza: i criteri generali di Jeanneau, ossia forza del Premier e maggioranze variabili

 

Dato che la prospettiva di “Governi di coalizione” risultava inevitabilmente preclusa per il precedente 2010-2015 (i Liberali, partner minore, avevano poi pagato pesantemente il loro ruolo in applicazione della regola generale secondo cui alla fine gli elettori che apprezzano il Governo tendono a votare il partito maggioritario, mentre gli altri tendono a rivolgersi ai gruppi di opposizione),  i dati elettorali hanno fatto rientrare il Regno Unito nel mondo dei “Governi di minoranza”, un mondo non frequentato nell’Isola dalla metà degli anni ’70 e su su cui è necessario sviluppare qualche considerazione generale prima di entrare nelle considerazioni specifiche sulla Brexit.

Segnalo che si tratta di casi che tendono a ampliarsi per quantità e qualità in varie democrazie parlamentari come segnalato dall’ampia panoramica offerta da Carlo Fusaro non molto tempo fa:

http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/12/fusaro.pdf

L’unico sistema con rapporto fiduciario che sembra evitare tale scenario è quello francese e non perché anche lì l’elettorato non sia altrettanto volubile e frammentato, ma perché il doppio meccanismo maggioritario che parte dall’elezione del Presidente ed elegge poi l’Assemblea in trascinamento al Presidente neo-eletto è in grado (esattamente come voluto dai riformatori del 2000 del quinquennato e del calendario elettorale) di produrre ampie maggioranze assolute in seggi.  nel 2002 Chirac prese al primo turno delle presidenziali il 19,9% dei voti e ottenne alla fine il 69% dei seggi all’Assemblea; Sarkozy nel 2007 fece il 31,2% dei voti e il 59,8% dei seggi; Hollande nel 2012 il 28,6% e il 59,8%; stavolta Macron col 24% dei voti, pur essendo un outsider, è arrivato al 60,6% dei seggi.

Sulla scia di alcune riflessioni di Pierre Avril, lo studioso francese Benoit Jeanneau, proprio nel volume dei Mélanges Avril, “La République” (Monchrestien, Paris, 2001) ha proposto una definizione larga dei cosiddetti “governi di minoranza” (o, meglio, di maggioranza relativa) e, quindi, alcuni criteri per evidenziarne la possibile efficacia (“Pour une réhabilitation des giuvernements dits minoritaires”, pp. 553-554).

Riprendo da lì i due spunti che ci sono più utili ai fini odierni.

Per Jeanneau in tale tipologia rientrano anche i Governi con una composizione ristretta ma “con l’appoggio di una “formazione che, pur restando all’esterno del governo, ha accettato di sostenerlo” (p. 539). Le ragioni che inducono in particolare i partiti regionalisti a prediligere un tale ruolo (che Jeanneau richiama sinteticamente a p. 546) sono state evidenziate in particolare dagli studiosi che hanno indagato il caso spagnolo tra cui il collega Eduardo Virgala Foruria. Come evidenzia anche F. Raniolo nel capitolo sulla Spagna del manuale curato da S. Vassallo “Sistemi politici comparati” (Il Mulino, Bologna, 2015, pp. 261-288). I cosiddetti PANE (Partidos de Ambito No Estatal) sono una via di mezzo tra partiti e lobbies; il loro ruolo di lobby territoriale è più efficace se appaiono più agnostici possibile alla dinamica dei PAES (Partidos de Ambito EStatal) e più concentrati sul loro ruolo specifico di ottenimento di garanzie lobbystiche.  Più in generale si veda anche il classico di K. Stromm “Minority Government and Majority rule”, Cambrige University Press, 1990, se non si voglia risalire anche ai testi classici di Fusilier sulle monarchie scandinave dove però tali governi non sono legati a partiti regionalisti e quindi non rilevano al fine del nostro caso di specie.

L’efficacia dei Governi di maggioranza relativa secondo Jeanneau dipende fondamentalmente da due fattori intrecciati di ordine politico: “l’omogeneità interna dell’esecutivo monocolore” che dovrebbe far perno soprattutto sulla “grande capacità di persuasione del Premier” e “la grande libertà di movimento nella strategia parlamentare” (pp. 552-553).

In altri termini i Governi di maggioranza relativa possono avere performance alte se la figura del Premier sia indiscussa e se i gruppi di minoranza a cui ci si può rivolgere siano più di uno, in modo da far passare i provvedimenti con uno schema a “maggioranze variabili”.

 

  1. Applicazione dei criteri al contesto del Regno Unito post-voto: un Governo debole

 

Prima e al di là dei dati normativi sul rapporto Governo-Parlamento richiamati da Giulia Caravale nell’intervento citato su www.dpce.it, appare pertanto abbastanza agevole applicare i criteri di Jeanneau al caso di specie.

La leadership di May è ancora relativamente troppo forte per essere sostituita, ma è relativamente indebolita al punto che non appare di per sé scontato che essa possa mantenere tale ruolo per l’intero mandato ripresentandosi alle prossime elezioni. La leadership non è quindi indiscussa e non può ottenere un consenso incondizionato all’interno del partito di maggioranza.

Analogo il bilancio di debolezza anche sul secondo criterio: l’unico partner possibile, e non ancora scontato, è solo il Dup, altre maggioranze variabili non appaiono possibili e per di più tale partner è posizionato su un estremo del continuum politico regionale in cui opera. Il suo ruolo decisivo al centro innesca tensioni ulteriori in periferia, anche ai fini del rispetto dell’accordo di pace in Irlanda del Nord. Come ha sottolineato su twiiter Eduardo Virgala Foruria le richieste economiche piuttosto esose del Dup assomigliano molto a quelle chieste e sostanzialmente ottenute il mese scorso dal Pnv (regionalisti baschi) al Premier Rajoy, quantificate in 5 miliardi di euro: il punto è che nel caso inglese i problemi non sono limitati alle sole rivendicazioni economiche.

Poste queste premesse non si vede quale linea negoziale coerente possa sviluppare un Governo di minoranza così debole, se non forse quello di un gioco al rinvio in attesa di tempi migliori all’interno, che però potrebbero non arrivare. Il Parlamento sospeso rischia di comportare un negoziato sospeso e già il discorso della Corona, di un Governo che non ha ancora una maggioranza, è stato se non sospeso almeno reticente.

Questa, almeno al momento, sembra essere l’unica considerazione plausibile.

Ad adiuvandum una considerazione finale: i sistemi basati su collegi uninominali portano con sé elezioni suppletive e, quindi, il pericolo di un’ulteriore riduzione quantitativa della maggioranza. Si tenga conto che nella legislatura 2010-2015 si sono svolte ben 21 suppletive, una media di poco più di 4 l’anno. Anche se ci si attenesse al calcolo delle probabilità e se pertanto vi fossero solo 2 suppletive l’anno in collegi detenuti dalla maggioranza, essa potrebbe comunque avere un saldo negativo di 4 deputati l’anno (2 persi sono anche 2 guadagnati dall’opposizione).

Il futuro prossimo non sembra quindi, al momento, niente affatto roseo per il Governo May.

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