Da “Paradoxa” n. 2
Le 6 ragioni del Sì in risposta ai 6 argomenti del No
di Stefano Ceccanti
Per illustrare le ragioni della riforma utilizzerò in questa sede il noto documento di 56 costituzionalisti schierati per il No in modo da rispondere ad ognuna delle loro sei critiche che sostanzialmente riassumono l’insieme delle obiezioni possibili di natura puntuale e non apocalittica.
In questo senso il documento, pur comunque espressivo di sensibilità plurime unite soprattutto in negativo e comunque di una minoranza di studiosi (non a caso è stato sottoscritto solo da quattro dei quarantadue componenti della Commissione nominata dal governo Letta, una delle quali si era dimessa e altri tre che avevano in più occasioni espresso opinioni dissenzienti) è stato utile perché ha consentito di laicizzare positivamente il dibattito.
Il primo argomento critico è quello per cui il testo sarebbe stato approvato da una maggioranza ristretta e variabile. In realtà è stato elaborato e votato nelle prime letture dal Pd e dall’intero centrodestra, mentre il M5S si è autoescluso. L’unica cosa che è variata è stata che dopo l’elezione di Mattarella i parlamentari che hanno ri-fondato Forza Italia hanno votato contro non per ragioni di contenuto ma per quella elezione ritenuta una forzatura, mentre il resto degli eletti di centrodestra ha continuato a votare. Si è sempre trattato di una maggioranza di circa il 60% di Camera e Senato, nettamente al di sopra di quella richiesta dall’articolo 138 e comunque soggetta alla futura verifica referendaria. Procedere altrimenti, ossia bloccarsi per il consenso venuto meno di Forza Italia, avrebbe significato accettare non già la logica delle riforme condivise ma un potere di veto immotivato nel merito.
Il secondo argomento mette in questione composizione e funzioni del Senato e gli squilibri quantitativi che si aprirebbero a favore del vincitore alla Camera di fronte a un Senato con troppo pochi componenti. In questi anni in Europa non c’è seconda Camera che non sia in questione: sia con riforme fatte (Germania, Francia, Regno Unito) sia con proposte (Spagna), le soluzioni sono tutte opinate. Quella del testo non è comunque improvvisata: corrisponde alla Tesi 4 dell’Ulivo, è richiesta da anni da Legautonomie, era quella più votata nella consultazione del Governo Letta. I firmatari sembrano alludere come soluzione coerente al modello tedesco, ma ciò appare contraddittorio. Assicurando nel 2018 una larghissima maggioranza al centrosinistra che detiene 17 giunte su 21, non sarebbe stata votata da nessuno se non dal Pd. Per di più la Camera tedesca ha più componenti della nostra e il Bundesrat tedesco ne ha meno del nostro nuovo Senato. Il ragionamento sui quorum di cui la maggioranza vincente potrebbe disporre da sola è infondato: a prescindere dal Senato (dove la maggioranza potrebbe essere opposta ma ove, anche se fosse dello stesso colore, risultando da elezioni regionali diverse, sarebbe meno omogenea e comunque limitata a 50-51) il 54% dei seggi della Camera sono inferiori al 60% dei componenti o dei votanti richiesti per gli organi di garanzia e peraltro sono tali solo a scrutinio palese. Neanche sommando i voti lordi 340 + 50 (= 390) ci si avvicina a 3/5 (435). In quei casi il voto è segreto e, pertanto, considerando che almeno 240 su 340 eletti saranno espressione delle preferenze (cioè di correnti in competizione) nel migliore dei casi il 60% lordo a scrutinio palese varrà ragionevolmente un 40-45% a scrutinio segreto. Senza un ulteriore 15-20% proveniente da gruppi di opposizione non sarebbe quindi possibile procedere. Il ragionamento vale quindi sia per i componenti laici del Csm (8 su 24, gli altri 16 sono magistrati) eletti ancora a tre quinti dei votanti in seduta comune, ma quasi tutti votano sempre per cui in realtà i votanti finiscono per essere tutti i componenti. Questo è anche il nuovo quorum per il Capo dello Stato: in quel caso, funzionando come una sorta di conclave che paralizza tutto fino all’elezione votano davvero tutti e i tre quinti dei votanti finiscono davvero per coincidere coi tre quinti dei componenti con un rischio obiettivo di paralisi. Alto infatti, come nel caso del Csm, trovare un’intesa su vari nomi su cui è quindi possibile trovare equilibri e compensazioni, altro l’elezione di un organo monocratico. Per i giudici costituzionali ora suddivisi in tre (Camera) e due (Senato) di un organo comunque di quindici l quorum è di tre quinti dei componenti: non raggiungibile alla Camera per le ragioni predette ma neanche al senato dove Regione per Regione è costituzionalizzata una formula proporzionale.
Il terzo argomento, la pluralità di procedimenti legislativi, è invece fondato, ma è la conseguenza della scelta fatta per il bicameralismo differenziato. Solo il monocameralismo e il bicameralismo ripetitivo non hanno questi problemi. Tutti gli Stati fortemente decentrati e a bicameralismo differenziato hanno una simile pluralità. Peraltro essa non deve essere esagerata: sono solo i quattro identificati nell’articolo 70 (non vi si possono aggiungere decreti legge, decreti legislativi, ecc. perché allora, se fossero considerati a parte, anche oggi ne avremmo tanti); e sono ben disciplinati, in particolare dal primo comma. Esso identifica in modo tassativo le leggi che restano bicamerali paritarie per tipi anziché per materie ed esclude che nel corso dell’esame parlamentare vi si possano inserire emendamenti di tipologie diverse. Di conseguenza risultano per differenza ben identificate sia la tipologia standard di prevalenza Camera con possibile richiamo (70 terzo comma), sia le leggi fondate sulla clausola di supremazia (70 quarto comma, per le quali la maggioranza assoluta Senato è superabile solo a maggioranza assoluta Camera), sia le leggi di bilancio (70 quinto comma: prevalenza Camera che vanno al Senato in automatico, senza richiamo). A evitare chiusure corporative dell’una e dell’altra Camera sta poi l’importantissimo ruolo unico dei dipendenti, che possono ruotare tar l’una e l’altra sede del Parlamento: una scelta che si giustifica non solo coi risparmi, con la volontà di evitare duplicazioni, ma anche e soprattutto conflitti inutili per gelosie di prerogative reciproche.
Il quarto argomento, quello della centralizzazione delle competenze legislative sembra vedere in questa scelta una decisione improvvisa del Parlamento, quando invece essa non fa che ratificare gli esiti della prevalente giurisprudenza costituzionale a cui hanno contribuito attivamente molti dei firmatari: quando si sono accettati come principi fondamentali anche norme di dettaglio non si era, di fatto, già rimpolpata la competenza esclusiva? E la sussidiarietà legislativa costruita dalla Corte non è analoga alla clausola di supremazia? La riforma non fa che regolare questo processo e compensarlo con la nuova composizione del Senato evitando che, al contrario di oggi, il tutto si sposti sui negoziati in Conferenza Stato-Regioni o davanti alla Corte. Per di più alle Regioni è offerta la garanzia qualitativamente più grande, l’assoluta parità del Senato sulle future revisioni costituzionali, tale da bloccare qualsiasi centralizzazione successiva.
Il quinto argomento, quello di non eccedere nell’affrontare il tema dal versante del costo del funzionamento delle istituzioni, di per sé potrebbe anche avere qualche ragione (i risparmi maggiori sono quelli indiretti, con la riduzione dei conflitti Stato-Regioni, istituzioni più semplici, decisioni più efficienti) finisce per trasformarsi in una difesa dello status quo che arriva a rimpiangere le vecchie province e persino il Cnel, come se la rappresentanza di interessi potesse esprimersi solo istituzionalmente secondo modelli di società ormai scomparse.
Il sesto argomento, quello dei referendum plurimi, non solo produrrebbe una stranissima procedura in cui i parlamentari nelle ultime letture votano in modo compatto ciò che poi verrebbe invece separato nella votazione popolare del medesimo procedimento, ma sembra ignorare che sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista politico il testo presenta logiche coordinate non separabili e compensazioni politiche. Il Senato ha una composizione autonomistica che bilancia la perdita di competenze legislative in un’altra parte del testo; la sua composizione indiretta è connessa a sua volta con le sue funzioni e con la conseguente perdita del rapporto fiduciario che sta in un’altra parte e così via. Non a caso quando si prevedono referendum costituzionali, anche di revisioni totali dei testi e non solo parziali, per quanto ampie, come nel nostro caso, il diritto comparato propone quasi sempre referendum complessivi.
Fin qui le ragioni di merito che appaiono più che sufficienti a una valutazione positiva del testo. Senza voler slittare minimamente a una logica di plebiscito su una persona o su un Governo, la valutazione deve comunque tener conto anche delle possibili conseguenze politiche. Come ha segnalato il Presidente Napolitano vi è nell’opinione pubblica esterna al nostro Paese una forte attenzione all’esito di una riforma vista in tali sedi, al di là degli aspetti tecnici e di dettaglio, come la prova di una rinnovata capacità di rinnovamento del Paese e delle sue istituzioni. Un eventuale successo del No, che porterebbe con sé un’inevitabile caduta del Governo e della legislatura, motivata in nome di nobili conservatorismi o di astratti perfezionismi, costituirebbe una perdita di credibilità forse irrimediabile per molti anni. Non è un artificio retorico, è un dato di realtà che il Presidente Mattarella, successore di Napolitano, ha recentemente affrontato e trattato alla Georgetown University auspicando il successo della riforma per uscire dall’indistinto di una troppo lunga transizione. Credo che la saggezza degli ultimi due inquilini del Quirinale debba essere seriamente presa in considerazione in vista del referendum di ottobre come elemento imprescindibile di giudizio.
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