In Diario

Presentazione del volume di Sabino Cassese “La democrazia e i suoi limiti”

Mi limito a tre osservazioni.

La prima, in relazione alla crisi dei partiti (p. 14 e seguenti), è che essa, che è una tendenza ampiamente diffusa, anche se non univoca (basti pensare alla partecipazione elettorale che può anche risalire quando un’elezione si presenta come incerta) presenta una forza diversa a seconda che si incroci con la forza o la debolezza degli assetti istituzionali. Basti vedere la differenza tra l’Italia (la cui debolezza è ben ricostruita dalla pagina 68 in poi) e la Francia o anche, all’interno dell’Italia, quale differenza vi sia tra il livello comunale e regionale (che hanno regole adeguate) e quello nazionale (dove esse sono carenti rispetto alla destrutturazione del sistema dei partiti). Nessun ordinamento è in grado di funzionare bene con queste due variabili entrambe deboli. Lo stesso fenomeno anomalo per la sua ampiezza nel caso italiano puntualmente criticato a pag. 67, il raccordo diretto tra pubblici ministeri e opinione pubblica, una parte di quel fenomeno che chiamiamo populismo giudiziario, è un effetto più che una causa di questa doppia debolezza. Il testo fa propria un’impostazione condivisibile, quella in cui l’impatto del voto degli elettori possa e debba avere un effetto prevedibile anche sugli assetti di governo e non solo sulla composizione delle assemblee elettive. Altrimenti in molti casi si avrebbe una situazione di “democrazia senza popolo” come scriveva Duverger a proposito della Quarta Repubblica francese.

La seconda è sul rapporto Stato-religioni come descritto a pag. 96: attenzione che i pericoli all’integrazione non derivano solo da alcune credenze religiose ma anche da quelle varianti del concetto di laicità che costituiscono una sorta di religione secolare: la separazione non può essere concepita in modo ostile alle credenze religiose diffuse nella società, ma solo alla compenetrazione tra istituzioni pubbliche e confessioni religiose. A volte il rischio è esattamente quello di uno scontro tra fondamentalismi religiosi e impostazioni da separazioni ostile che si rafforzano a vicenda.

La terza è relativa a un eccesso di ottimismo, o comunque di neutralità, sullo status quo dell’Unione europea, discusso da pagina 86 in avanti. Il fatto che ogni Governo nazionale debba rispondere non solo ai suoi elettori ma anche agli altri Governi con cui coopera è anche una risorsa in un assetto multi-livello che può arginare alcune tentazioni come la concentrazione anomala di poteri (non sempre ci si riesce come dimostrano i casi di Ungheria e Polonia), ma tuttavia, in questi ultimi anni è anche e soprattutto un problema. Nelle arene decisionali dove il gioco è a somma zero (come l’immigrazione) in realtà un Governo nazionale è ostaggio dei veti altrui, veti che rischiano di allineare il consenso del proprio elettorato e, inoltre, non è che in questo intreccio la rispondenza sia paritaria: in verità questo lo segnala anche il testo, quando rileva che qualche Governo è fatalmente più responsabile verso gli altri esecutivi e qualcun altro molto meno a seconda del peso geopolitico (p. 90). Forse però bisogna osare di più, nel nuovo contesto successivo all’elezione di Macron. Ciò non significa pensare alle varianti estreme del federalismo, a un super-Stato che nessuno propone, ma il punto è chiarire il più possibile le aree in cui il Governo risponde solo al proprio elettorato e dove invece istituzioni comuni rispondono all’elettorato complessivo. Siamo da anni paralizzati da un veto della Germania ad una maggiore integrazione economica se non si avvia una almeno relativa integrazione politica e da un corrispettivo veto della Francia, che si può rompere solo ora, a un’integrazione politica che ridimensioni il mito della sovranità nazionale.

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