Sull’ordinazione delle donne
Lo storico parere della Pontificia commissione biblica (1976)
Nel contesto della ricerca promossa per determinare il posto che oggi può essere riservato alle donne nella Chiesa, la Pontificia commissione biblica ha ricevuto la richiesta di studiare il ruolo delle donne nella Bibbia.*
La domanda che in modo particolare attende risposta è se sia possibile per le donne ricevere l’ordinazione al ministero sacerdotale (specialmente in quanto ministri dell’eucaristia e guide della comunità cristiana). Nel fare questa ricerca biblica occorre avere in mente i limiti di un tale studio. In generale il ruolo delle donne non costituisce il principale soggetto dei testi biblici. Spesso ci si deve rifare a informazioni fornite qua e là. A giudicare dai dati limitati di cui disponiamo, la situazione delle donne ai tempi biblici era probabilmente più o meno buona.
La domanda posta riguarda il presbiterato, il ministero dell’eucaristia e la guida della comunità locale. Si tratta di un modo di considerare le cose abbastanza estraneo alla Bibbia.
È certo che il Nuovo Testamento parla del popolo cristiano come di un popolo sacerdotale (cf. 1Pt 2,5.9; Ap 1,6; 5,10). Afferma che alcuni membri di questo popolo compiono un ministero presbiterale e sacrificale (cf. 1Pt 2,5.12; Rm 12,1; 15,16; Fil 2,17). Tuttavia per il ministero cristiano non fa mai uso del termine tecnico hiereus. A fortiori non mette mai hiereus in relazione con l’eucaristia. Il Nuovo Testamento parla molto poco del ministro dell’eucaristia. Luca 22,19 ordina agli apostoli di celebrare l’eucaristia in memoria di Gesù (cf. 1Cor 11,24). Atti 20,11 mostra che anche Paolo spezzò il pane (cf. anche At 27,35). Le lettere pastorali, che ci offrono l’immagine più dettagliata delle guide della comunità locale (episkopos e prebyteroi), non attribuiscono mai alle stesse guide una funzione eucaristica.
Oltre a queste difficoltà derivanti dallo studio dei dati biblici secondo la prospettiva di una concezione tardiva del presbiterato legato all’eucaristia, è necessario considerare che la stessa concezione è ora messa in questione nelle più recenti dichiarazioni del magistero, nelle quali si allarga il concetto di presbiterato oltre il ministero eucaristico.
Il posto della donna nella famiglia
«In principio»
Nella Genesi, il «principio» serve meno a presentare l’inizio della storia che a presentare il progetto fondamentale di Dio per l’umanità. In Genesi 1, l’uomo e la donna sono insieme chiamati a essere l’immagine di Dio (Gen 1,26s), su un piano di uguaglianza e in una comunità di vita. È in comune che essi ricevono il mandato di governare il mondo. La loro vocazione dà un nuovo significato alla sessualità, che l’uomo possiede come gli animali.
In Genesi 2, l’uomo e la donna sono collocati su un piano di uguaglianza: la donna è per l’uomo «un aiuto che gli corrisponda» (2,18), e dal loro rapporto d’amore essi sono resi «una sola carne» (2,24). La loro unione include la vocazione della coppia alla fecondità, ma senza ridursi soltanto a essa.
Fra questo ideale e la realtà storica della razza umana il peccato ha introdotto un notevole divario. L’esistenza della coppia è ferita nei suoi stessi fondamenti: l’amore è degradato dalla concupiscenza e dal dominio (cf. Gen 3,16). La donna soffre nella sua condizione di madre, che tuttavia la pone strettamente a contatto col mistero della vita. Il degrado sociale della sua condizione è anche correlato con la ferita che si manifesta nella poligamia (cf. Gen 4), nel divorzio, nella schiavitù ecc. Essa rimane tuttavia la depositaria della promessa di salvezza fatta ai suoi discendenti.
È interessante notare che l’ideale di Genesi 1-2 è rimasto presente nel pensiero di Israele come un orizzonte di speranza: lo si ritrova esplicitamente nel libro di Tobia.
Il simbolismo dei sessi nell’AT
L’Antico Testamento esclude il simbolismo sessuale in uso nelle mitologie orientali riguardo ai culti della fertilità: nel Dio di Israele non c’è sessualità. Ma molto presto la tradizione biblica ha preso a prestito alcuni tratti della struttura familiare per fare un ritratto di Dio Padre. Ha fatto poi ricorso all’immagine dello sposo per elaborare un concetto nobile del Dio dell’alleanza.
In correlazione con queste due immagini fondamentali, i profeti valorizzarono la dignità della donna rappresentando il popolo di Dio con l’ausilio dei simboli femminili della sposa (in relazione con Dio) e della madre (in relazione con i partner umani dell’alleanza, uomini e donne). Tali simboli furono usati in particolare per evocare anticipatamente l’alleanza escatologica, nella quale Dio realizzerà il suo progetto in pienezza.
L’insegnamento di Gesù
Se consideriamo l’ambiente sociale e culturale nel quale è vissuto Gesù, il suo insegnamento e il suo comportamento nei confronti delle donne sono sorprendenti per la loro novità. Non considereremo qui il suo atteggiamento. Interrogato sul divorzio dai farisei (cf. Mc 10,1-12), Gesù si discosta dalla casistica rabbinica la quale, sulla base di Dt 24,1, operava una discriminazione fra i rispettivi diritti di uomini e donne.
Dopo aver ricordato ai farisei il progetto originario di Dio (cf. Gen 1,27 e 2,24), mostra la sua intenzione di stabilire quaggiù un ordine delle cose che realizzi pienamente il suo progetto: il regno di Dio, inaugurato dalla sua predicazione e dalla sua presenza, porta con sé la piena restaurazione della dignità femminile. E porta con sé anche un superamento delle antiche strutture giuridiche nelle quali il ripudio metteva a nudo il fallimento del matrimonio «a causa della durezza del cuore». In questa prospettiva va compresa la pratica del celibato «per il regno dei cieli» (Mt 19,12), per sé e per «coloro ai quali è stato concesso» di comprenderlo (Mt 19,11). Il suo atteggiamento verso le donne dovrebbe essere esaminato a partire da qui.
Così Gesù inaugura, nella cornice del tempo presente, l’ordine delle cose che costituisce l’orizzonte finale del regno di Dio: esso risulterà essere «un nuovo cielo e una nuova terra», una condizione nella quale i risorti non avranno più bisogno di esercitare la loro sessualità (cf. Mt 21,31). Di conseguenza, per rappresentare il regno dei cieli Gesù può utilizzare in modo appropriato l’immagine delle vergini chiamate alla festa di nozze dello sposo (cf. Mt 25,1-10).
Dalla Madre di Gesù alla Chiesa
Considerando l’esistenza storica di Gesù, figlio di Dio inviato nel mondo (cf. Gal 4,4ss), possiamo dare un’occhiata alle sue origini.
Gli evangelisti Matteo e, ancor più, Luca hanno messo in chiaro il ruolo insostituibile di sua madre Maria. I valori propri della femminilità, presentati nell’Antico Testamento, sono ricapitolati in lei, di modo che lei attualizza il suo ruolo unico nel piano di Dio. Ma nel compimento stesso del suo ruolo materno, Maria anticipa la realtà della nuova alleanza, della quale suo figlio sarà il mediatore. Infatti ella è la prima a essere chiamata a una fede che riguarda il suo figlio (cf. Lc 1,42) e a un’obbedienza nella quale lei «ascolta la parola di Dio e la mette in pratica» (Lc 11,28; cf. 1,38).
Inoltre, lo Spirito, che opera in lei il concepimento di Gesù (cf. Lc 1,35, Mt 1,18), farà sorgere nella storia un nuovo popolo il giorno di Pentecoste (cf. At 2). Il suo ruolo storico è quindi legato alla ripresa del simbolismo femminile usato per evocare il popolo nuovo: da quel momento in poi la Chiesa è «la nostra madre» (Gal 4,20). Alla fine dei tempi, sarà la «sposa dell’Agnello» (Ap 21). A motivo di questa relazione fra Maria, donna concreta, e la Chiesa, donna simbolica, in Apocalisse 12 la nuova umanità riscattata dal potere del peccato e della morte può essere presentata come colei che partorisce Cristo, il suo primogenito (cf. Ap 12,4-15), nell’attesa di avere come discendenza «quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17).
La donna nella Chiesa
La simbologia nuziale è anche specificamente utilizzata da san Paolo per evocare il mistero di Cristo e della sua Chiesa (cf. Ef 5,22-33). Ma è anzitutto la relazione tra Cristo e la Chiesa, suo corpo, a illuminare ciò che sta alla base dell’approccio di Paolo.
Malgrado la cornice istituzionale, che implica la sottomissione delle donne ai loro mariti (cf. Ef 5,22; Col 3,18; 1Pt 3,1), Paolo rovescia la prospettiva enfatizzando la loro reciproca sottomissione (cf. Ef 5,21) e l’amore (cf. Ef 5,25.33), del quale l’amore di Cristo è fonte e modello: la carità (cf. 1Cor 13) diventa la misura dell’amore coniugale. È attraverso la carità che la «perfezione originale» (cioè la pienezza del progetto di Dio per la coppia umana) può essere raggiunta (cf. Ef 5,31, che cita Gen 2,24). Questo suppone non solo l’uguaglianza dei diritti e dei doveri esplicitamente affermati (cf. 1Cor 7,3-4), ma anche l’uguaglianza nella filiazione adottiva (cf. Gal 3,28; 2Cor 6,18) e nell’accoglienza dello Spirito, che dona di partecipare alla vita della Chiesa (cf. At 2,17-18).
Ricevuto così il suo pieno significato, grazie alla relazione simbolica con il mistero di Cristo e della Chiesa (cf. Ef 5,32), il matrimonio riacquista anche la sua indissolubile solidità (cf. 1Cor 7,10-12; Lc 16,18).
Nel cuore di un mondo peccatore la maternità ha valore salvifico (cf. 1Tm 2,15). Al di fuori della vita coniugale, la Chiesa offre un posto d’onore alla vedovanza consacrata (cf. 1Tm 5,3), e riconosce nella verginità il possibile significato di una testimonianza escatologica (cf. 1Cor 7,25-26) e di una più completa libertà di consacrare sé stessi «alle cose del Signore» (cf. 1Cor 7,32ss). Tale è lo sfondo sul quale si muove la riflessione che riguarda il posto e la funzione delle donne nella società e nella Chiesa.
Condizione sociale della donna secondo la rivelazione biblica
La Bibbia, e in particolare il Nuovo Testamento, insegna molto chiaramente l’uguaglianza dell’uomo e della donna nell’ambito spirituale (relazione con Dio) e nell’ambito morale (relazione con gli altri esseri umani). Ma quello della condizione sociale della donna è un problema sociologico, che come tale va trattato: nei termini delle leggi sociologiche (i dati fisici e psicosomatici del comportamento femminile in una società terrena); nei termini della storia delle società (nelle quali il popolo di Dio ha vissuto durante e dopo la composizione della Bibbia); nei termini delle leggi della Chiesa di Cristo, suo corpo, i cui membri vivono una vita ecclesiale sotto la direzione di un magistero istituito da Cristo, continuando ad appartenere ad altre società e stati.
L’esperienza biblica mostra che la condizione sociale della donna è cambiata, ma non in modo lineare, non secondo un continuo progresso. L’antico Egitto ha conosciuto una reale promozione della donna prima dell’esistenza di Israele. Le donne israelite hanno sperimentato una certa fioritura sotto la monarchia, ma poi la loro condizione tornò a essere di subordinazione. Al tempo di Cristo lo status della donna nella società ebraica sembra essere inferiore a quello che essa occupa nella società greco-romana, dove sta venendo meno la mancanza di uno status legale e dove «le donne provvedono da sole alle loro faccende» (Gaio).
Se confrontato con i suoi contemporanei, Cristo ha un atteggiamento molto originale verso la donna, che ne valorizza la condizione.
Società cristiana e società ebraica
La società cristiana si stabilisce su basi diverse da quelle della società ebraica. È fondata sulla pietra angolare che è il Cristo risorto ed è costruita sul collegio di Pietro con i Dodici. Secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, in particolare delle lettere di Paolo, le donne sono associate ai diversi ministeri carismatici (diaconie) della Chiesa (cf. 1Cor 12,4; 1Tm 3,11, cf. in particolare v. 8): profezia, servizio, probabilmente anche l’apostolato, senza tuttavia far parte dei Dodici. Nella liturgia occupano almeno il ruolo di profetesse (cf. 1Cor 11,4). Ma, secondo gli scritti paolini, un apostolo come Paolo può togliere loro la parola (cf. 1Cor 14,33-35; 1Tm 2,6-15).
Questa società cristiana vive non solo grazie al governo dei Dodici, che in Luca e altrove nel Nuovo Testamento sono chiamati apostoli, ma anche attraverso la vita liturgica sacramentale, nella quale Cristo comunica il suo spirito come sommo sacerdote non più secondo l’ordine di Aronne ma secondo l’ordine di Melchìsedek, re e sacerdote (cf. Eb 8; Sal 110).
Sociologicamente parlando, nella società ebraica, e quindi in quella cristiana prima della rottura, il sacerdozio consacrato di Aronne (cf. Lv 9) assicurava un’autentica vita liturgica e sacrificale nel tempio di pietra. Ma Cristo è il vero sommo sacerdote e il vero tempio (cf. Gv 2,21). Egli è stato consacrato (hagiazein) e inviato (apostellein) dal Padre (cf. Gv 10,26), e ha consacrato se stesso al fine di consacrare gli apostoli nella verità che è egli stesso (cf. Gv 17,17.19). Questa è una caratteristica fondamentale di quella società che, fra le altre società, è la Chiesa, la quale dispensa vita eterna mediante la sua liturgia.
Il problema è quello di sapere se nella società cristiana guidata dagli apostoli – i Dodici, Paolo, Tito, Timoteo – e dai loro successori (vescovi, presbiteri, higoumenes) le donne possano essere chiamate a partecipare a questo ministero liturgico e alla guida delle comunità locali, come fu per le regine dell’Antico Testamento, specialmente vedove, chiamate a partecipare alle funzioni regali dei re consacrati. Di fatto, nel Nuovo Testamento nessun testo supporta formalmente una tale ipotesi, anche se nelle Lettere pastorali è possibile sottolineare il ruolo delle vedove (cf. 1Tm 5), così come in Luca, quando parla di Anna nel tempio (latreuein). La questione non riguarda più la sociologia, ma è il compito della nostra terza sezione (condizione della donna nel culto).
Condizione ecclesiale della donna
Antico Testamento
Nell’Antico Testamento, la religione yahvista non era riservata ai soli uomini, come si è detto altrove. Così come gli uomini, le donne potevano offrire sacrifici e partecipare alla liturgia. Tuttavia, contrariamente al costume dei popoli pagani coevi, la liturgia del secondo tempio era riservata esclusivamente agli uomini della tribù di Levi (non solo la funzione sacerdotale, ma anche quella di cantori, vasai ecc.).
Vi sono donne che portano il titolo di profetesse (Maria, Debora, Culda), pur senza ricoprire il ruolo dei grandi profeti. Altre donne hanno avuto un’importante funzione per la salvezza del popolo di Dio in momenti critici della sua storia (ad esempio, Giuditta ed Ester).
Emendamento di p. Wambacq: «Nell’Antico Testamento, la religione yahvista non era una religione che escludeva le donne, come a volte si sostiene. Le donne potevano partecipare alla liturgia come gli uomini. Contrariamente alle usanze dei popoli pagani contemporanei, l’esercizio ufficiale della liturgia del tempio era riservato agli uomini, nel secondo tempio a quelli della tribù di Levi».
Nuovo Testamento
In stridente contrasto con le usanze coeve del mondo ebraico, Gesù si circonda di donne che lo seguono e lo servono (cf. Lc 8,2-3). Maria di Betania è perfino descritta come il discepolo esemplare, che «ascoltava la sua parola» (Lc 10,38-42). Sono le donne a ricevere l’incarico di annunciare la risurrezione «ai suoi discepoli e a Pietro» (Mc 16,7).
Il quarto Vangelo accentua il ruolo di testimoni attribuito alle donne: la donna samaritana, la cui conversazione con Gesù ha stupito gli apostoli, porta ai concittadini la sua testimonianza su Gesù. Dopo la risurrezione, l’evangelista sottolinea il ruolo di Maria Maddalena, che la tradizione chiamerà «l’apostola degli apostoli».
Mentre la cristianità si diffondeva, le donne assumevano un ruolo considerevole. Fatto che distinse ulteriormente e nettamente la nuova religione dall’ebraismo contemporaneo. Alcune donne collaboravano con il lavoro propriamente apostolico. Lo si riscontra in numerosi passi degli Atti e delle Lettere. Ci limiteremo soltanto ad alcuni di essi.
Nella fondazione di comunità locali, le donne non si limitano a offrire le loro case per le riunioni, come fanno Lidia (cf. At 16,14-15), la madre di Marco (cf. At 12,12) e Prisca (cf. Rm 16,5); ma, come ad esempio in Filippesi 4,2, Evodia e Sintiche sono esplicitamente associate nella comunità a «Clemente e agli altri collaboratori di Paolo». Delle ventisette persone che Paolo ringrazia o saluta nell’ultimo capitolo della Lettera ai Romani, nove o forse dieci sono donne. Riguardo a parecchie di loro, Paolo insiste a specificare che si sono affaticate per la comunità e usa il verbo greco (kopian), che viene molto spesso utilizzato per indicare il compito di evangelizzazione propriamente detto.
Il caso di Prisca e del marito Aquila, che Paolo indica come suoi «collaboratori in Cristo», e dei quali afferma che «a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano» (Rm 16,3-4), ci mostra un concreto esempio di questa «collaborazione»: il loro ruolo nella vicenda di Apollo ci è ben noto (cf. At 18,24-28).
Paolo nomina esplicitamente una donna «diacono» (diaconos) della Chiesa di Cencre, che – egli afferma – «ha protetto molti, e anche me stesso» (Rm 16,1-2). Nelle Lettere pastorali, le donne indicate dopo i vescovi e i diaconi avevano probabilmente lo status di diaconi (cf. 1Tm 3,11). Va menzionata anche Giunia, o Giunio, posta nel rango degli apostoli (cf. Rm 16,7), riguardo alla quale qualcuno solleva la questione se non si trattasse in realtà di un uomo.
Sull’eventuale ordinazione delle donne al presbiterato
Il ministero di guida della comunità secondo Gesù e la Chiesa apostolica
Inaugurando il regno di Dio, Gesù, durante il suo ministero, scelse un gruppo di dodici uomini che, secondo il modello dei dodici patriarchi dell’Antico Testamento, sarebbero stati le guide del nuovo popolo di Dio (cf. Mc 3,14-19). Questi uomini, da lui destinati a «sedere su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele» (Mt 19,28), furono anzitutto inviati a «proclamare che il regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7).
Dopo la sua morte e risurrezione, Cristo affidò ai suoi apostoli la missione di evangelizzare tutte le nazioni (cf. Mt 28,19; Mc 16,5). Questi uomini sarebbero diventati i suoi testimoni, cominciando da Gerusalemme «e fino ai confini della terra» (At 1,8; cf. Lc 24,47). «Come il Padre ha mandato me» – egli disse – «così io mando voi» (Gv 20,21).
Dopo aver lasciato questo mondo per tornare al Padre, delegò a un gruppo di uomini che aveva scelto la responsabilità di far crescere il regno di Dio e l’autorità di governare la Chiesa. Secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, il gruppo apostolico così stabilito dal Signore apparve come la base di una comunità che ha continuato l’opera di Cristo, incaricata di comunicare all’umanità i frutti della salvezza.
È un dato di fatto che negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere le prime comunità erano sempre dirette da uomini che esercitavano il potere apostolico. Gli Atti degli Apostoli fanno vedere che la prima comunità cristiana di Gerusalemme conobbe un unico ministero di guida, quello degli apostoli: si trattava dell’urministerioum dal quale sono derivati tutti gli altri. Pare che molto presto la comunità greca abbia ricevuto una sua propria struttura, presieduta dal collegio dei sette (cf. At 6,5). Un po’ più tardi il gruppo ebraico ebbe da discutere su un collegio di presbiteri (cf. At 11,30). La Chiesa di Antiochia era presieduta da un gruppo di «cinque profeti e maestri» (cf. At 13,1). Alla fine del loro primo viaggio missionario, Paolo e Barnaba collocarono presbiteri nelle Chiese appena fondate (cf. At 14,23). C’erano presbiteri anche a Efeso (cf. At 20,17), a cui fu dato il nome di vescovi (cf. At 20,28).
Le Lettere confermano lo stesso quadro. Si parla di proistamenoi nella Prima lettera ai Tessalonicesi (5,12, cf. 1Tm 5,17 «hoi kalos proetotes presbyteroi»), del presbiterio cristiano (cf. 1Tm 5,1.2.17.19; Tt 1,5; Gc 5,4; 1Pt 5,1.5), di episkopoi, di hegoumenoi (cf. Eb 13,7; 13,24; Lc 22,26).
Nella Prima lettera ai Corinzi (16,16) raccomanda ai cristiani la «sottomissione» nei confronti di quelli della «casa di Stefanas» che erano mandati per il servizio dei santi. Qualunque cosa volesse dire questa designazione (il v. 17 parla di Stefanas, Fortunato e Acaico), tutto ciò che possiamo sapere di coloro che avevano un ruolo di guida nelle comunità ci porta a concludere che questo ruolo era sempre ricoperto da uomini (in conformità con le usanze ebraiche). Nota bene: le «presbytides» nominate nella Lettera a Tito (2,3) erano donne anziane, non pretesse.
Il carattere maschile dell’ordine gerarchico che ha strutturato la Chiesa fin dal suo inizio pare quindi attestato dalla Scrittura in modo innegabile. Dobbiamo concludere che questa regola deve rimanere valida per sempre nella Chiesa?
Non va dimenticato che secondo i Vangeli, gli Atti e Paolo, alcune donne offrirono una positiva collaborazione al servizio delle comunità cristiane. Dobbiamo sempre farci anche un’altra domanda: quale valore normativo si deve accordare alla pratica delle comunità cristiane dei primi secoli?
Il ministero di guida nell’economia sacramentale
Elemento essenziale nella vita della Chiesa è l’economia sacramentale che trasmette ai fedeli la vita di Cristo. L’amministrazione di questa economia è stata affidata alla Chiesa sotto la responsabilità della gerarchia. Sorge così la domanda sulla relazione tra l’economia sacramentale e la gerarchia. Nel Nuovo Testamento, il ruolo primordiale delle guide delle comunità sembra sempre collocarsi nell’ambito della predicazione e dell’insegnamento. Queste persone hanno la responsabilità di conservare le comunità in linea con la fede degli apostoli.
Nessun testo definisce il loro incarico in termini di un potere particolare che permettesse loro di celebrare il rito eucaristico o di riconciliare i peccatori.
Data però la relazione tra l’economia sacramentale e la gerarchia, l’amministrazione dei sacramenti non avrebbe potuto essere esercitata indipendentemente dalla gerarchia. È quindi all’interno dei doveri della responsabilità di guida della comunità che dobbiamo considerare l’argomento del ministero eucaristico e penitenziale.
Di fatto non abbiamo prove che al tempo del Nuovo Testamento questi ministeri fossero affidati a donne. Due testi (1Cor 14,33-35 e 1Tm 2,11-15) vietano alle donne di parlare e di insegnare nelle assemblee. Tuttavia, senza entrare nei dubbi sollevati da alcuni sulla loro autenticità paolina, è possibile che essi si riferiscano soltanto ad alcune concrete situazioni e abusi. È possibile che altre situazioni spingano invece la Chiesa ad assegnare alle donne il ruolo di insegnare, che costituisce una funzione appartenente alla responsabilità di guida e che questi due passaggi negano. È possibile che si verifichino circostanze nelle quali la Chiesa si senta chiamata ad affidare ad alcune donne i ministeri sacramentali?
Ciò è accaduto per il battesimo, il quale, benché affidato agli apostoli (cf. Mt 28,19 e Mc 16,15s), può essere amministrato anche da altri. Sappiamo che, almeno in epoca tardiva, esso è stato consentito anche alle donne.
Arriveremo a fare lo stesso anche con il ministero dell’eucaristia e della riconciliazione, che manifestano in modo eminente il servizio del sacerdozio di Cristo di cui sono incaricate le guide della comunità?
Non pare che il Nuovo Testamento, preso da solo, permetta di risolvere in modo chiaro e definitivo il problema del possibile accesso delle donne al presbiterato. Alcuni ritengono che nella Scrittura vi siano sufficienti indicazioni per escludere una tale possibilità. Soprattutto in considerazione del fatto che i sacramenti dell’eucaristia e della riconciliazione hanno un particolare legame con la persona di Cristo, e quindi con la gerarchia maschile così come è nata dal Nuovo Testamento.
Altri, al contrario, si chiedono se la gerarchia ecclesiastica, cui è affidata l’economia sacramentale, non potrebbe affidare i ministeri dell’eucaristia e della riconciliazione a donne in particolari circostanze, senza andare contro le intenzioni originali di Cristo.
* A seguito dei numerosi riferimenti fatti da papa Francesco alla necessità di ripensare il ruolo della donna nella Chiesa, pubblichiamo la prima (e nostra) traduzione italiana del documento di lavoro elaborato nella primavera del 1976 dalla Pontificia commissione biblica sul ruolo delle donne nella Scrittura, apparso in inglese in appendice al vol. di A. Swidler, L. Swidler (a cura di), Women Priests, Paulist Press, New York 1977, 338-346.
Il testo porta la firma, oltre che del presidente della Commissione e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede card. Franjo Seper, e del segretario, mons. Albert Deschamps, vescovo titolare di Tunisi, dei membri che facevano allora parte della Commissione: Jose Alonso-Diaz, Jean-Dominique Barthelemy, Pierre Benoit, Raymond Brown, Henri Cazelles, Alfons Deissler, Ignace de la Potterie, Jacques Dupont, Salvatore Garofalo, Joachim Gnilka, Pierre Grelot, Alexander Kerrigan, Lucien Legrand, Stanislas Lyonnet, Carlo Maria Martini, Antonio Moreno Casamitjana, Ceslas Spicq, David Stanley, Benjamin Wambacq, Marino Maccarelli (segretario tecnico).
Sono noti anche i risultati delle votazioni: su 20 membri erano presenti in 17; non sono noti i nomi dei tre assenti. Le 3 questioni sottoposte a voto, tutte approvate, erano: 1) il Nuovo Testamento non afferma in modo chiaro se le donne possono diventare prete (voto unanime); 2) i motivi scritturistici non sono sufficienti da soli a escludere la possibilità dell’ordinazione delle donne (12 a 5); 3) il piano di Cristo non sarebbe violato con l’ordinazione delle donne (12 a 5).
La dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale Inter insignores, che porta la data del 15 ottobre 1976 – firmata a nome della Congregazione dal card. Seper –, non tenne conto di questo documento (ndr).
Recent Posts