Senato della Repubblica – Prima Commissione
Audizioni sul DDL COST. 1429-B
Contributo di Carlo Fusaro, Dipartimento Scienze giuridiche di UNIFI
Illustre Presidente, Signori Senatori, Signora Ministra,
ringrazio dell’invito e vengo subito alla sostanza del mio contributo che sarà, in questa occasione, sia in forma scritta sia – tanto più – in forma orale davvero breve.
Del resto non fosse per alcune difficoltà di natura strettamente politica, diciamo di schieramento, questo processo di revisione di alcune parti importanti della parte II della Costituzione sarebbe oggi avviato alla sua naturale, rapida conclusione. Come mi permetterò di evidenziare questa non è un’opinione: è quanto suggeriscono i dati oggettivi, è quanto indica un’attenta analisi del lavoro, rilevante, compiuto dai due rami del Parlamento: e questo, consentitemi di aggiungere, consiglierebbe l’interesse del Paese.
Ripeto ancora una volta in due parole la premessa con la quale ho introdotto le troppe audizioni che in tema di funzionamento della forma di governo, legge elettorale, riforma della Costituzione ho avuto l’onore di fare. Dico troppe con tutto il rispetto per le forze politiche e per il Parlamento: da un tempo davvero troppo lungo ci stiamo dibattendo nella difficoltà a riformare ciò che da tanti anni e con ogni evidenza è urgente e indispensabile cambiare. E allora la premessa è questa: con umiltà e deferenza, e certo facendo uso della molta o poca competenza che in queste materie posso aver accumulato in una carriera dedicata principalmente proprio ad esse, io mi presento a voi innanzitutto come cittadino. Non intendo in altre parole accampare asettiche e scientifiche imparzialità che su argomenti come questi nessuno può vantare, e che comunque non ho alcuna intenzione di rivendicare. Se io ho scelto di studiare queste cose e di dedicarci la mia vita professionale è perché, almeno da quando ebbi il privilegio di frequentare brevemente le aule parlamentari più di trenta anni fa, ritengo che questi siano i problemi di fondo che la democrazia italiana deve prioritariamente affrontare.
Su questo piano mi rimetto parola per parola, integralmente, a partire dai toni appassionati e dalle sottolineature naturalmente preoccupate, all’intervento del senatore a vita Giorgio Napolitano. Io condivido al cento per cento la sua ansia riformatrice. E mi permetto di ricordare con lui le condizioni eccezionali in cui questa legislatura si avviò due anni fa, segnata come dal sigillo indelebile (che è divenuto anche un obbligato programma di lavoro parlamentare incisivamente riformatore) della rielezione, appunto del presidente Napolitano, e da quel suo indimenticabile messaggio, pronunciato proprio davanti a voi nel giorno del giuramento il 22 aprile 2013.
Questo è il contesto generale nel quale la riforma costituzionale si iscrive, anticipata poi dalla nuova legge elettorale della Camera che ne è l’utile complemento. In proposito vedo che anche nel dibattito in questa Commissione, che ho letto con l’attenzione e il rispetto che merita, sono state evocate preoccupazioni che a mio avviso non hanno alcuna ragione di essere: obiettivo delle riforme che si stanno perseguendo è indiscutibilmente il rafforzamento della funzionalità complessiva del sistema, il rendere la nostra forma di governo parlamentare in grado di affrontare le sfide di oggi e del futuro, superare i limiti che ad essa furono imposti dal contesto nel quale la Costituzione del ’48 venne scritta. C’è dunque, certamente, anche il rafforzamento della funzione di governo. Sul punto ormai tutto dovrebbe essere chiaro: mi riferisco alle inoppugnabili testimonianze di Dossetti, di Ruini prima di lui, alle note preoccupazioni di De Gasperi. Ma su questo non insisto: Governo e Parlamento molto hanno fatto nella direzione giusta, come cercherò di dimostrare, e in misura che si può e che si dovrebbe considerare conclusiva.
Rimettendomi per la sostanza dell’analisi alla puntuale, esauriente relazione della Presidente Finocchiaro, vorrei prima di tutto offrire un umile tentativo di bilancio rispetto alla strada compiuta.
Il progetto iniziale Renzi-Boschi incideva su 45 articoli della Costituzione (in una decina di casi per mero adeguamento conseguenziale rispetto ad alcune innovazioni sostanziali: per esempio a seguito della proposta revisione del bicameralismo, e a seguito dell’abolizione del riferimento in Costituzione alle province; che si son portati dietro tutta una serie di correzioni formali); poi questo ramo del Parlamento intervenne a sua volta l’anno scorso in prima lettura con modificazioni incisive, peraltro facendo salva la sostanza della proposta iniziale (rapporto fiduciario con la sola Camera, bicameralismo differenziato con prevalenza legislativa attribuita alla Camera con riferimento particolare ai poteri di bilancio, composizione indiretta del nuovo Senato di rappresentanza territoriale cui si manteneva però il nomen attuale, abolizione di province e Cnel): queste modificazioni, naturalmente in diversa misura, incidevano a loro volta su 20 articoli fra quei 45, e inoltre proponevano modifiche ad altri due articoli della Costituzione che non erano incisi dalla proposta iniziale (in particolare l’art. 75 in materia di referendum e l’art. 134 per introdurre il riferimento al giudizio di costituzionalità preventivo sulle leggi elettorali); alla Camera, successivamente, si è aggiunta una modifica (invero limitatissima, quella che fa riferimento alla “trasparenza” nella p.a.) a un ulteriore articolo, l’art. 97, per cui – alla fine – gli articoli della Costituzione modificati sono diventati 48: al netto di questa modestissima integrazione, la Camera ha a sua volta fatto proprio l’impianto della riforma, incidendo – con emendamenti – solamente su 16 dei 47 approvati in prima lettura al Senato. E’ stato stimato (Ceccanti) che sarebbe stato confermato circa il 90% del testo Senato. Il dato mi sembra sostanzialmente attendibile, anche se un calcolo preciso non ho avuto tempo di farlo: è vero, infatti, che 16 rispetto a 48 costituisce un terzo; tuttavia, in vari casi si è trattato di specificazioni, chiarimenti, restyling per migliorare la qualità del testo o interventi comunque puntualissimi.
Faccio un primo elenco: (i) all’art. 64 nel testo Senato si faceva riferimento all’obbligo per i regolamenti delle due Camere di “garantire i diritti delle minoranze parlamentari”; nel testo Senato, ferma l’identica formulazione, si è aggiunto che il regolamento della camera, ed esso solo, deve disciplinare le prerogative specifiche dell’opposizione, specificazione che deriva dal fatto che il rapporto fiduciario diventa ora esclusivo con quest’ultima; (ii) all’art. 73, che contiene una norma delicata introdotta appunto dal Senato, cioè il ricorso preventivo alla Corte costituzionale in materia elettorale, la modifica della Camera consiste nella riduzione a un quarto, da un terzo, il numero di deputati che possono chiederne il giudizio, lasciando a un terzo il numero dei senatori; ha abolito inoltre l’obbligo di indicare il parametro della presunta violazione e introdotto il termine di dieci giorni; (iii) all’art. 77 (decretazione d’urgenza) si è voluto specificare che il disegno di legge di conversione va presentato sempre alla Camera (ma in effetti così pareva già, a leggere il testo del Governo); si è poi allungato a 90 giorni il termine per la decadenza in caso di rinvio presidenziale e si è specificato che il divieto di decretazione in materia elettorale – saggiamente – non vale per gli aspetti organizzativi del procedimento elettorale stesso: riguardo ai quali decreti sono stati adottati praticamente ad ogni tornata elettorale; (iv) all’art. 78 si è previsto per lo stato di guerra il quorum rafforzato della maggioranza assoluta dei componenti; (v) all’art. 116 sulle ulteriori forme di autonomia alle regioni si sono aggiunte le politiche attive del lavoro e della formazione professionale (e nient’altro); (vi) all’art. 119 si è voluto specificare che è la legge a fissare i costi standard e il modo di calcolare i fabbisogni; (vii) all’art. 120 in materia di poteri sostitutivi, la Camera ha ritenuto utile specificare l’inclusione – a mio avviso comunque pacifica – delle province autonome di Trento e di Bolzano (questa è la sola modifica); (viii) all’art. 122 si è inserito l’ennesimo riferimento all’obbligo di promuovere il riequilibrio di genere della rappresentanza (devon’essere ormai tre o quattro questi riferimenti in Costituzione), ma tant’è: chi oserebbe opporsi se non per ragioni di stile legislativo?
Si può dunque affermare che più della metà degli articoli del testo Senato 2014, incisi dal testo Camera 2015, per l’esattezza nove su 16, hanno subito modificazioni, che non intendo definire irrilevanti o di scarso peso (forse in un paio o tre casi anche questo), ma certo sostanzialmente del tutto marginali: come tutto opinabili e suscettibili di ulteriori puntualizzazioni, esse dovrebbero considerarsi pacificamente accettabili, da non discutersi nemmeno direi, sempre che si voglia perseguire il disegno di una riforma nei tempi più rapidi possibile e non il contrario, e con la minor possibile contrapposizione con l’altro ramo del Parlamento, secondo la strada indicata dal presidente Napolitano (magari non da quanti si sono ritenuti – incredibilmente – in diritto di sbeffeggiarlo).
Questo stesso giudizio di sostanziale irrilevanza – e so di toccare il punto più delicato – deve darsi anche riguardo alla micromodifica all’art. 57 Cost., contenuta nel tanto spesso richiamato art. 2 del progetto alla quale – ne sono consapevole – alcuni appendono la speranza o la pretesa di rimettere in discussione uno dei capisaldi della riforma sulla quale questo ramo del Parlamento ha già votato e così anche l’altro.
L’art. 57, signori Senatori, nella versione approvata da Senato e Camera è assai lungo: consta di sei commi, otto frasi-proposizioni, 254 parole, 1317 battute. Di tutto ciò la Camera, come ben sapete, ha cambiato una parola, anzi due lettere: «la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti» (al posto di: «nei quali sono stati eletti»). La modifica non è meramente formale: è sostanziale. Chiarisce che i senatori – siano essi consiglieri senatori o sindaci senatori – durano in carica quanto il Consiglio regionale che li ha eletti. Questa disposizione non è affatto in contrasto con quanto previsto – ora – dall’u.c. del nuovo art. 66 (art. 7 del progetto): esso, opportunamente, specifica che «il Senato… prende atto della cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da senatore», dopo che il primo comma ha ribadito che ciascuna Camera (anche il Senato) giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti. La Camera, qui, ha voluto – semplicemente – chiarire che il senatore consigliere o il senatore sindaco che perde la carica di consigliere o sindaco decade da senatore senza margini di discrezionalità da parte del Senato. Resta comunque fermo che, nel caso in cui il Consiglio regionale si sciolga (per dimissioni del presidente o sfiducia votata dal Consiglio stesso o per altra delle cause previste dall’art. 126 Cost.), anche tutta la delegazione al Senato di quella Regione conclude il suo mandato (incluso il sindaco senatore): sarà rieletta dal nuovo Consiglio regionale com’è logico che sia, appena rinnovato. Non c’è contrasto alcuno: in un caso si tratta di decadenza individuale, nell’altro si tratta di cessazione anticipata del mandato di tutti gli eletti in sede regionale: costituzionalmente prevista al fine di mantenere il nesso di rappresentanza che lega la legislatura regionale, quello specifico Consiglio regionale, al pacchetto di senatori che ne sono espressione.
Del resto l’art. 57, prima e dopo la micromodifica della Camera, è del tutto coerente anche con altri fondamentali articoli della nuova Costituzione votati dal Senato e approvati senza modifiche dalla Camera: prima di tutto con l’art. 58 del nuovo testo, fondamentale, così proposto dal Governo, confermato dal Senato e riconfermato dalla Camera (soppressivo dell’estrazione direttamente elettiva del Senato!); e poi: l’art. 63 col nuovo comma voluto dal Senato (appunto confermato alla Camera), secondo il quale «il regolamento stabilisce in quali casi l’elezione o la nomina alle cariche negli organi del Senato della Repubblica possono essere limitate in ragione dell’esercizio di funzioni di governo regionali o locali» (coerente con l’elezione indiretta di chi è al tempo stesso consigliere regionale o sindaco: altrimenti non avrebbe senso); l’art. 69 proposto dal Governo, confermato dal Senato e poi dalla Camera senza modifiche, in base al quale un’indennità parlamentare spetta solo ai componenti della Camera dei deputati; ma anche l’art. 68: che conserva intatta l’insindacabalità del co. 1 coprendo così deputati e senatori (si badi bene: essa è prevista dall’ordinamento anche per i consiglieri regionali), mentre limita ai soli deputati l’applicazione dei commi 2 e 3 dello stesso articolo (che infatti non sono mai stati estesi, nonostante qualche tentativo, frustrato dalla giurisprudenza costituzionale, di estenderlo ai legislatori consiglieri regionali).
In altre parole, tutto si tiene: e si tratta di ben sei articoli (57, 58, 63, 66, 68, 69) tutti votati nella stessa formulazione in entrambe le Camere, salva la micromodifica dell’art. 57 di cui s’è detto e quella meramente di razionalizzazione e chiarimento dell’ultimo comma dell’art. 66. Un complesso organico e coerente di disposizioni: ben quindici commi (più i due soppressi dell’ex art. 58), tutti sistematicamente connessi e vocati a disegnare il nuovo Senato di rappresentanza territoriale a elezione indiretta da parte dei Consigli regionali.
Al di là di qualsiasi acrobatico sforzo interpretativo degli articoli 120 e 104 del RS, quanto esposto esclude a priori qualsiasi possibilità anche tecnica di incidere significativamente, tanto più al Senato, a modifica di quanto votato da questo ramo del Parlamento e conformemente votato dalla Camera dei deputati. Che l’art. 121 RS, per i progetti costituzionali, imponga l’applicazione dell’art. 104 RS che si applica al procedimento ordinario, è pacifico. Quanto all’art. 104, il suo testo è noto a tutti i componenti di questa Commissione, e non devo tornarci su. La sua finalità sistematica non va rammentata: ha il fine evidente (come il parallelo art. 70.2 del RC, ancorché formulato in modo lievemente diverso, ma allo stesso scopo diretto) di favorire – in un sistema che ad oggi è a bicameralismo paritario indifferenziato (che impone la doppia conforme per l’approvazione di una legge) – la efficienza funzionale del procedimento legislativo. In altri termini: ad evitare navette infinite si considera realizzata la doppia conforme anche in misura parziale, anche per fasi successive, anche progressivamente. Sicché nella logica sistematica di questo meccanismo è certamente possibile emendare la micromodifica all’art. 57 incidendo sulla formula “dai” / “nei”; ed è possibile altresì, parimenti, tornare sulla specificazione che limita sostanzialmente alla presa d’atto della decadenza determinata dalla perdita della carica locale o regionale la funzione di verifica titoli del Senato. Ma giammai si potrebbe pensare di appendere a questi dettagli la rimessa in discussione di uno dei capisaldi della riforma, proposto dal Governo, già votato in questa sede e, come credo di aver dimostrato, come confermato anche nei dettagli dalla Camera dei deputati. Questo da un punto di vista logico, sistematico, di tecnica giuridica.
Ciò detto non sarei un decoroso docente di diritto parlamentare se disconoscessi che – com’è anche opportuno, a mio avviso – essendo le assemblee parlamentari la sede della politicità per eccellenza, qui politica e diritto vanno a braccetto: tanto che (sia pure suscitando le forti critiche di parte della dottrina, preciso, io non mi unisco) ha trovato occasionale applicazione il c.d. principio del nemine contradicente. Cito testualmente, per rifarmi a una fonte neutra, il “Glossario” che si legge nel sito di questa stessa Camera (cfr. https://www.senato.it/3563?glossario=3&glossario_iniziale=C, voce “Consuetudine”): «Nel diritto parlamentare le consuetudini hanno speciale importanza, perché integrano le norme regolamentari o intervengono in àmbiti non coperti da queste ultime. Un’importante consuetudine parlamentare è costituita dalla regola secondo la quale le regole procedurali scritte possono essere derogate nemine contradicente (cioè, se nessuno si oppone)». Dunque, ecco il punto: da un punto di vista giuridico si potrebbe, lo dico per assurdo (a mio avviso), rimettere in discussione l’estrazione regionale indiretta dei senatori, ma solo contraddicendo platealmente lettera e spirito del Regolamento del Senato, per il che occorre – per consuetudine, appunto – non una qualsivoglia maggioranza, ma l’accordo di tutti, di tutti i gruppi e di tutti i senatori: possibile solo se nessuno si oppone.
Sul merito di una scelta del genere aggiungo invece poco. E’ ovviamente suprema scelta politica. Basta avere la consapevolezza che si stravolgerebbe radicalmente il progetto già approvato, si realizzerebbe un clamoroso gioco dell’oca con ritorno alla casella iniziale, si darebbe luogo all’avvio di una navette potenzialmente, dato questo “pecato originale”, infinita: sarebbe di fatto l’affossamento del più compiuto e serio tentativo di riforma della Costituzione dal 1948 ad oggi, in frontale contraddizione con lo spirito del 22 aprile 2013. Ciò inoltre – naturalmente – delegittimerebbe la credibilità del Governo in carica e della sua maggioranza che hanno legato a questa proposta il destino proprio (e della legislatura), annunciando sin dall’inizio disponibilità su tutto tranne che su quattro punti: senato eletto indirettamente, senato senza rapporto fiduciario, scelte finali sul bilancio alla Camera, senatori senza indennità parlamentare.
Ma, aggiungo, trovo non condivisibili e pasticciate anche alcune delle formule di ipotizzato compromesso che sono state informalmente ventilate e mai precisate in testi precisi. Mi riferisco all’idea balzana di delegare alla legislazione statale e regionale di attuazione il compito di individuare forme di indicazione in sede elettorale dei consiglieri regionali destinati ad essere poi eletti senatori. A parte che ciò ovviamente non sarebbe neppure immaginabile per i 21 sindaci (quindi per 21 senatori su 95), con conseguente differenziazione di incerta e non auspicabile valenza; a parte che ciò somiglierebbe come una goccia d’acqua all’espediente che giustamente sollevò perplessità di ogni genere, pur nella sua ingegnosità, della legge 43/95: quando si previde il capolista regionale che – vigente il titolo V° pre-riforma – non poteva essere direttamente eletto presidente della Regione, ma era ugualmente destinato ad essere dal Consiglio votato come tale, salvo nei primi due anni lo scioglimento anticipato… una soluzione ponte che fu varata in tutta fretta in attesa delle elezioni regionali di quell’anno e fu poi fortunatamente superato alla radice dalla riforma l. cost. 1/1999.
A parte queste considerazioni, non sarebbe auspicabile proprio per quelle ragioni di coerenza che da diverse parti vengono sollevate rispetto al complesso del progetto in esame: e che non sono affatto del tutto campate per aria, anche se spesso vengono avanzate da chi poi suggerisce soluzioni ancora meno coerenti con i presupposti di una funzione di rappresentanza territoriale che l’art. 55 come revisionato efficacemente sintetizza e che deve costituire il primo parametro di riferimento nel giudizio di qualsiasi modificazione. (Mi riferisco a quanti, per esempio, vagheggiano un senato assemblea di c.d. garanzia, quasi che garanzie e contrappesi non vengano da ben altro nel nostro ordinamento e nella nostra Costituzione).
Dice dunque il co. 5 dell’art. 55. «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali». Questa è dunque la funzione che si assegna al nuovo Senato: non si parla di “rappresentanza territoriale” tout court; non si parla di “rappresentanza regionale” o di “rappresentanza locale”. Si parla di rappresentanza delle “istituzioni territoriali”, delle istituzioni, non dei cittadini, non degli elettori, non dei popoli o altro. Delle istituzioni territoriali. Il modello, del resto evocato in molte circostanze, ancorché poi seguito solo in misura parziale (purtroppo, aggiungo io) è quello del Bundesrat tedesco. Tuttavia, il progetto anche nella sua formulazione attuale consente di andare in quella direzione, non lo impedisce, e permette potenzialmente positive evoluzioni… purché non si introducano disposizioni in contrasto che lo impediscano o lo rendano meno probabile. Già col testo attuale una critica legittima è quella secondo la quale esiste la possibilità che la rappresentanza delle istituzioni territoriali possa trovarsi in qualche modo in competizione con la tradizionale rappresentanza partitica: con il rischio che la seconda prevalga sulla prima (succede persino in Germania a volte!). Sarebbe dunque un errore introdurre a qualsiasi livello, costituzionale o legislativo, disposizioni che favoriscano la rappresentanza partitica a scapito di quella istituzionale (pur entrambe “territorializzate”). Personalmente, per esempio, ritengo che i presideni delle Regioni dovrebbero essere per prassi tutti sistematicamente eletti a senatori. Né mi spaventa l’obiezione così spesso avanzata secondo la quale la funzione di senatore e quella di capo dell’esecutivo regionale, ma anche quella di consigliere regionale, sarebbero incompatibili, funzionalmente non esercitabili dalla stessa persona. Si tratta, infatti, di intendersi: se si continua ad avere del Senato, ancorché riformato come nel progetto, una concezione di assemblea rappresentativa che lavora undici mesi l’anno, tre settimane al mese, praticamente riunita in permanenza secondo la tradizione parlamentare dell’Italia repubblicana, allora l’obiezione può esser valida, ma in tal caso la riforma rischierebbe di rivelarsi un mezzo insuccesso. Il punto è che il futuro Senato, al contrario, va pensato come assemblea ristretta assistita da congruo lavoro preparatorio in vista di sessioni lunghe, per esempio, non più di una settimana al mese per otto-dieci mesi, in strettissimo coordinamento oltre che con la Camera per le funzioni cui entrambe continuerebbero a concorrere, con la Conferenza Stato-regioni e unificata, e naturalmente con i Consigli regionali. Anche questi sarebbero incisi nelle loro modalità di operare: è chiaro che dovrebbero a loro volta (alcuni già lo fanno) concentrare la propria attività specie legislativa, specie deliberativa in un numero relativamente ristretto di giorni, funzionale a permettere la partecipazionedei propri senatori consiglieri alle attività regionali. Questi a loro volta andrebbero sollevati del tutto da attività meramente istruttorie in sede consiliare, salvo l’esame in fase diciamo ascendente, per mutuare il linguaggio dell’UE, in relazione alla propria attività legislativa in Senato di immediato e diretto interesse per la Regione.
Se così è, e se si concorda che ciò sarebbe auspicabile e in linea col tentativo riformatore, allora si capisce perché qualsiasi forma di diretto collegamento fra voto popolare nella regione e investitura dei senatori consiglieri deve ritenersi un non senso, una contradizione, un limite. Come sarebbe possibile garantire la possibilità di eleggere senatore il presidente della Regione? E come se non facendo ricorso alle solite dannossisime preferenze, sarebbe possibile individuare tramite il voto popolare quei consiglieri destinati ad essere eletti senatori, vincolando e delegittimando il Consiglio regionale medesimo? Che senso avrebbe avere in Senato componenti che devono la loro elezione non all’istituzione nella quale rappresentano il proprio partito e i cittadini, ma direttamente ai cittadini medesimi? Come non capire che le logiche di comportamento non potrebbero che mutare rispetto a quelle attese e che ogni possibilità di coerenza con quel “rappresentano le istituzioni territoriali” finirebbe col vanificarsi?
Due parole sul resto. Anche perché, a ben vedere, le pur significative e numerose, ma sempre limitatissime, modificazioni in materia di procedimento e competenza legislativa e in materia di attribuzioni rispettive di Stato e Regioni apportate dalla Camera non mi paiono tali da giustificare impuntature da patriottismo istituzionale o diversamente motivate: sotto questo profilo questo ramo del Parlamento dovrebbe prendere atto che il proprio contributo al progetto (vedi i dati sopra indicati) è stato decisivo e fortemente incisivo, e che appunto le modifiche al proprio progetto apportate dalla Camera dei deputati sono state complessivamente assai modeste. Né dovrebbe, il Senato, dimenticare che vigente la Costituzione attuale, delle due Camere esso resta quella a più ridotta legittimazione popolare. Ci sono quelle sette classi di età di differenza nell’elettorato attivo che fanno della Camera dei deputati l’unica davvero eletta a suffragio universale.
Mi soffermo perciò su due punti che mi paiono al tempo stesso di rilievo, legittimamente sottoponibili a modifiche ulteriori nel rispetto dell’art. 104 RS, e potenzialmente meritevoli di correzione senza – in astratto almeno – creare contrasti con l’altro ramo del Parlamento, né rallentare ulteriormente, per questo, un procedimento legislativo che è già stato troppo lungo.
Mi riferisco agli artt. 83 e 135 Cost.: il primo disciplina l’elezione del presidente della Repubblica; il secondo disciplina l’elezione dei cinque componenti di estrazione parlamentare della Corte costituzionale.
Con riferimento all’art. 83 Cost. considero non soddisfacenti sia la soluzione a suo tempo approvata dal Senato sia la soluzione modificata e approvata dalla Camera. Preciso che non mi riferisco alla composizione del collegio che elegge il presidente della Repubblica, che trovo adeguata (art. 83.1 e 2). Taluno lamenta un presunto squilibrio a vantaggio della Camera. E’ un equivoco se appena si sta alla logica sistematica della nuova Costituzione comparata con quella vigente. Nell’attuale costituzione, le due Camere sono entrambe espressione di rappresentanza partitica e lo sono sempre state: vi sono differenze di composizione, ma non ha e non ha mai avuto praticamente alcuna significativa rilevanza che la Camera abbia 630 componenti e il Senato 315 (più i senatori a vita), in un rapporto di due a uno. Per le funzioni elettive le due Camere vanno considerato un unico organo. Come sappiamo, poi, i 945 sono integrati dai 58 delegati dei consigli regionali: ed anch’essi per prassi sono stati scelti in modo da non alterare – sostanzialmente – la composizione politica dell’organo che elegge il capo dello Stato.
Col nuovo Senato, dei delegati regionali non vi è più alcun bisogno: la rappresentanza delle istituzioni territoriali è di tutto il Senato, ed è numericamente quasi raddoppiata, fermi i senatori vitalizi (da 58 a 95, più 37). Si può discutere se sia sufficiente: in Germania i Länder eleggono tanti delegati quanti sono i componenti del Bundestag: ma, tanto più dopo questa riforma, la differenza fra uno stato federale e uno regionale, come il nostro (al di là della sbornia federalistica della seconda metà anni Novanta), è netta. Né ha alcun senso lamentare il divario numerico fra Camera dei deputati (630) e Senato (95): se non in quella logica di contrapposizione a finalità di pseudo garanzia che certamente non mi pare da condividersi e che è estranea al progetto e alla sua sistematica.
Ciò che invece suscita perplessità è la rimodulazione dei quorum che si è inteso realizzare: in sé e in astratto non censurabile, ma difficilmente compatibile con l’evoluzione del sistema politico e con le nuove aspettative dell’opinione pubblica. Elevare i quorum per numerose votazioni rischia solo di protrarre la durata delle elezioni presidenziali: il che – diversamente dagli anni Settanta – nessuno è disposto a tollerare con la certezza di alimentare ulteriore discredito per le istituzioni parlamentari. Basti pensare che nel 2013 già cinque votazioni senza esito scatenarono forme di impazienza ed esasperazione generalizzate.
Questa Camera aveva modificato l’art. 83 (nuovo) co. 2, aumentando da tre a quattro gli scrutini per i quali si richiede la maggioranza dei due terzi, introducendo altri quattro scrutin con la maggioranza dei tre quinti (sempre dei componenti) per passare finalmente alla maggioranza assoluta al nono. Se si pensa alla prassi inauguratasi con la pur fortunata elezione del 2015, ciò significa o rischia di significare ben quattro giorni (otto scrutini) di puro surplace in attesa di accordi. La Camera ha lievemente migliorato la situazione: i tre quinti valgono dal quarto scrutinio (non dal quinto) e dal settimo (non dal nono) resta la stessa maggioranza, ma calcolata rispetto ai votanti e non rispetto ai componenti (ciò comporta solo la possibilità che qualche gruppo si convinca a non partecipare alla votazione per permettere l’elezione di chi altrimenti non verrebbe eletto: cosa improbabile nella democrazia del pubblico): se l’intendimento era, come pare, di agevolare il raggiungimento di un quorum efficiente, l’esito è incerto. Mi domando allora se non si potrebbe prevedere qualcosa di diverso e di effettivamente innovativo: trovo intelligente la proposta avanzata in sede accademica da Augusto Barbera e Stefano Ceccanti. Si tratterebbe di introdurre un voto ordinale obbligatorio per cui ciascun componente del Parlamento in seduta comune esprime a pena di nullità un primo e un secondo voto. Aggiungendosi in sede di scrutinio i secondi voti dei candidati arrivati da terzo in giù ai primi voti conseguiti dai primi due votati, il conseguimento di quorum che anche restassero elevati potrebbe risultare più agevole; con ogni probabilità, effetto benefico non marginale, le forze politiche maggiori sceglierebbero candidati non divisivi o addirittura graditi alle altre forze politiche (per favorire l’attribuzione di secondi voti a loro vantaggio): si avrebbero eletti con un forte consenso sostanziale e si instaurerebbe una prassi meno ferocemente competitiva. Si tratterebbe poi di decidere da quale scrutinio in poi prevedere che sia eletto il più votato fra i due con più primi e secondi voti (senza quorum: norma di chiusura).
Rimane, infine, la questione della scelta dei giudici costituzionali. Il governo e il Senato avevano fatto una scelta coerente con un ordinamento regionale fortemente decentrato anche se non propriamente “federale” (né voluto come tale). La Camera ha ritenuto di ripristinare le modalità attuali: in questo caso, diversamente dall’elezione del presidente della Repubblica, il discorso dello squilibrio fra i due rami del Parlamento rinnovato ha una concreta valenza. Vi è il rischio, forse anche la certezza, che le istanze regionaliste e territoriali facciano gran fatica a farsi sentire, sicché a me parrebbe ragionevole ritornare alla formula Senato, purché ciò non inneschi un braccio di ferro con la Camera. Avere due giudici costituzionali (su 15!) scelti sulla base, oltre che della competenza, anche della particolare riconosciuta sensibilità alle istanze degli enti territoriali, potrebbe essere una scelta saggia.