In Diario

Intervento in sede di dichiarazione di voto
del Sen. Giorgio Napolitano
a nome del Gruppo Per le Autonomie
sul disegno di legge costituzionale 1429-B

Aula del Senato, 13 ottobre 2015

Signor Presidente,
Onorevoli colleghi,
se nelle ultime settimane non mi avete visto al mio banco è perché ho ritenuto più appropriato alla condizione di Senatore di diritto attribuita dalla Costituzione a chi è stato Presidente della Repubblica, il non intervenire, dopo aver dato il mio contributo in Commissione, in una fase di aspro scontro politico in Assemblea su un terreno tra i più delicati.
Sono certo che comprendiate la mia scelta, alla quale desidero far seguire oggi espressioni di sincero rispetto per la fatica e per l’impegno che avete condiviso, pur da diverse e opposte posizioni, in lunghe, talvolta convulse sedute d’Aula, nell’ambito del calendario stabilito e in vista della sua scadenza conclusiva.
Il mio voto favorevole su questa legge è legato a mie non solitarie e lungamente maturate convinzioni in tema di riforme costituzionali. Le ho ripetutamente espresse e argomentate da Presidente della Repubblica, consultando in proposito molte volte nella scorsa legislatura le forze politico-parlamentari di maggioranza e di opposizione, e riscontrando almeno formali ampie convergenze, com’è documentato dalle comunicazioni con cui ne ho dato di volta in volta notizia.
D’altronde, la richiesta che mi venne rivolta per la rielezione a Presidente, e l’accettazione a cui fui fortemente sollecitato, furono ancorate a un impegno largamente comune per riprendere e portare a conclusione le riforme lasciate cadere (e ricorderete il forte rammarico da me espresso nel Messaggio al Parlamento del 22 aprile 2013).
E in effetti il processo riformatore si rimise in moto dopo la formazione del governo Letta, sulla base di un mandato di Camera e Senato a schiacciante maggioranza e con l’ausilio di una commissione di studiosi di alto livello. Toccò poi all’attuale governo assumersi la responsabilità di presentare nell’aprile 2014 il disegno di legge costituzionale.
Oggi comunque mi guarderò dal ripetere o ricapitolare i termini della contesa protrattasi fino all’ultimo giorno in fase di terza lettura della riforma costituzionale. Credo che possa assai di più interessare i cittadini e il paese la sostanza degli obbiettivi perseguiti e dei cambiamenti che si avviano ad essere introdotti nel nostro ordinamento. Obbiettivi che nel dibattito di queste settimane hanno ribadito di volere anche forze politiche e gruppi parlamentari drasticamente dissenzienti dalle soluzioni adottate e sostenute dal governo.
Ci si avvia ormai a superare i vizi del bicameralismo paritario : le ripetitività e le non virtuose competizioni tra i due rami del Parlamento, la sempre più grave assenza di linearità e di certezze del procedimento legislativo, anche in materie importanti e urgenti, e un difetto di fondo della nostra democrazia rappresentativa in quanto non associava al vertice dell’assetto costituzionale la rappresentanza delle istituzioni regionali e locali.
Ci si avvia a poter garantire – almeno per aspetti essenziali – quella stabilità e continuità nell’azione di governo, che non può più mancare, con grave danno per il paese, in un futuro come quello che è già cominciato.
Verificare, criticamente quanto si voglia, se a ciò possano valere le soluzioni adottate col disegno di legge che stiamo per approvare, sarà compito di tutti. Prepararci a mettere concretamente in piedi il nuovo Senato sarà compito di tutti.

Onorevoli colleghi, non stiamo semplicemente chiudendo i conti con i tentativi frustrati e con le inconcludenze di trent’anni ; dobbiamo dare risposte a situazioni nuove e ad esigenze stringenti, riformare arricchendola la nostra democrazia parlamentare. E bisognerà dare attenzione, al di là dell’approvazione di questa legge, a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali.
Ma l’alternativa a una conclusione positiva di questa terza lettura della legge sarebbe stata il restare inchiodati a tutte le disfunzioni e storture che ben conosciamo, dal ricorso abnorme alla decretazione d’urgenza a una fuorviante conflittualità tra legislazione nazionale e legislazione regionale. L’alternativa sarebbe stata egualmente il restare bloccati nelle contraddizioni del Titolo V come rivisto nel 2001.
Si è invece lavorato a riformare quella riforma senza tornare alla centralizzazione del passato, e fermo restando tra l’altro il rispetto delle specificità di ciascuna delle Regioni e Province a statuto speciale. L’intento complessivo, fortemente condiviso dal Gruppo cui mi onoro di appartenere, deve essere quello di promuovere un risanamento e rilancio del sistema delle autonomie seriamente vulnerato da crisi e cadute di prestigio di istituzioni regionali e locali.
In conclusione, legittima rimane oggi ogni posizione critica relativa a questo o quell’aspetto di una legge di riforma certamente non perfetta. Se tuttavia penso alle tante occasioni perdute di riforma della II Parte della Costituzione ne colgo una causa nella tendenziale, defatigante ricerca, ogni volta, del perfetto o del meno imperfetto.
L’art. 138 della Costituzione ha circondato di molte prudenze e garanzie ogni possibilità di revisione della Carta. In pari tempo i Costituenti si preoccuparono però di non “rendere difficilissima una revisione” nel futuro, dinanzi all’emergere di “bisogni sempre nuovi e sempre diversi”.
Senonché, a partire soprattutto dal più ambizioso progetto di riforma del 1998 e dalla sua clamorosa caduta in dirittura d’arrivo, ha giuocato negativamente un fattore politico di fondo. Esso ha frustrato ogni tentativo di riforme a larga maggioranza. Nell’ultimo anno sono state determinanti ripetute rotture e incomprensioni nel quadro politico. Io sono il primo a rammaricarmene perché è stata una sconfitta di tutti.
Ma il fattore politico di fondo cui ho accennato è stato negli ultimi vent’anni il fatale riprodursi di un atteggiamento di insormontabile sospetto ed allarme tra gli schieramenti che competono per la guida del paese. La verità è che ancora non siamo giunti a quel che, giurando per il mio primo mandato di Presidente, definii dinanzi al Parlamento riunito, “il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza”.
Esso avrebbe dovuto significare, dissi, “il reciproco riconoscimento, rispetto ed ascolto tra gli opposti schieramenti, il confrontarsi con dignità in Parlamento e nelle altre assemblee elettive, l’individuare i temi di necessaria e possibile limpida convergenza nell’interesse generale”.
Convergenza su terreni oggi cruciali per l’Italia : impegno in Europa e politica estera, rafforzamento e rinnovamento delle istituzioni democratiche.
Il mio auspicio nel 2006 fu, se non ingenuo, certamente precoce. Ma l’esigenza rimane e si è fatta più scottante. Esserne consapevoli e perseguire quella “maturità” finora mancata è la prova a cui nessuna forza politica seria e nessun soggetto responsabile può più sottrarsi.

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