In Diario

 

Mi limiterò in questa sede a due semplici osservazioni.

La prima è che mentre nelle forme presidenziali, in assenza di rapporto fiduciario, è possibile effettivamente distinguere nettamente rappresentanza e governabilità, dando vita a una complessa logica di ricerca di consenso tra istituzioni, ben descritta nel contributo di Buratti (in particolare pag. 91), con una visione realistica anche degli equilibri dopo l’affermazione di Trump, non mi convince invece l’idea di applicare rigidamente queste distinzioni alle forme con rapporto fiduciario.

Dove vi è rapporto fiduciario vi è infatti, come già spiegava Bagehot, un continuum tra maggioranza parlamentare e Governo bilanciato dall’azione dei gruppi di minoranza e di opposizione oltre che, nei tempi odierni da altri contropoteri come il controllo di costituzionalità e l’integrazione europea. Un continuum che deve in qualche modo essere intellegibile anche agli elettori al momento del voto per fare del cittadino l’arbitro del sistema. Se funziona male il continuum si danneggia al tempo stesso la rappresentanza e la governabilità perché la paralisi decisionale finisce per colpire il principio di responsabilità. Solo Governi di legislatura prevedibili al momento del voto consentono un buon funzionamento del continuum, come ben chiarisce Di Plinio al termine del suo contributo, con particolare riferimento al governo dell’economia, specie alle pagine 223-224.

Speso quando parliamo di crisi della rappresentanza e cerchiamo vie di fuga che spesso sarebbero in realtà regressive (un eccesso di enfasi su forme di democrazia diretta, su mandati imperativi e consimili) e su cui l’onere della prova spetta comunque a chi vuole intaccare le certezze tradizionali, in realtà giriamo intorno a questo specifico problema.

La seconda osservazione conseguente è che, giustamente, fanno bene i singoli autori a discutere laicamente le varie soluzioni possibili, da quelle già sperimentate altrove a quelle che si possono originalmente costruire. Tuttavia la valutazione dipende dal grado di funzionamento per così dire ‘naturale’ del continuum maggioranza-Governo. Laddove esso, senza particolari difficoltà, anche con limitati incentivi istituzionali, produce Governi di legislatura nulla quaestio. Tuttavia l’Italia soffre di una naturale tendenza alla frammentazione e di una difficoltà strutturale delle forze politiche di stipulare intese stabili e coerenti che tra le grandi democrazie ha riscontri analoghi visibili solo in Francia quando in quel paese si vota con la proporzionale (europee) o al primo turno di elezioni maggioritarie. Da qui fatalmente il ruotare del dibattito, come dimostrato dai lavori della Commissione nominata dal Governo Letta, sui due modelli che concretamente si sono rivelati efficaci: o quello neo-parlamentare costruito teoricamente nel 1956 da Duverger e Vedel, varato nei comuni nel 1993, esteso alle Regioni col doppio passaggio 1995-1999 (riforma elettorale e poi costituzionale) e tentato, in modo analogo anche se non identico, col combinato disposto Italicum-riforma costituzionale sul piano nazionale, oppure l’adizione integrale del modello francese post-2002. Per questo contro il primo modello non mi convincono né le obiezioni di Politi (pag. 205) ed ancor meno quelle di Cosulich, in particolare a p. 356: la solidità del continuum vale sia per i livelli in cui si amministra e basta ma anche per quelli in cui si legifera; non a caso quel modello era stato pensato per il rapporto tra Parlamento e Governo francese anche se da noi è stato mutuato dapprima nei comuni. Anzi nelle Regioni quel modello di forma di governo fu introdotto nel 1999 dopo la prova provata che la sola riforma elettorale del 1995 non era sufficiente a garantire la governabilità: quindi non deriva da un approccio astratto, ma da una prova provata dell’insufficienza della sola legislazione elettorale e di una norma razionalizzatrice significativa (la norma “antiribaltone” che portava a nuove elezioni in caso di crisi nel primo biennio; non appena fu superata tale scadenza iniziarono le crisi).  Idem anche per l’obiezione presentata a pag. 363: non sono sistemi adatti al bipolarismo che sarebbero revocati in dubbio dalla nuova frammentazione, ma esattamente il contrario. Se infatti i poli fossero naturalmente solo due i sistemi di razionalizzazione necessari potrebbero essere più duttili. Quei sistemi furono adottati per Comuni e Regioni esattamente perché i poli erano più di due e così pure, per questo identico motivo, è stato esperito il tentativo sul piano nazionale. Essendo esso irreversibilmente fallito il 4 dicembre scorso, nonostante le riserve espresse da Paola Marsocci (da pagina 95 in poi) è inevitabile che riprenda quota l’ipotesi di adozione del sistema francese e non quale cedimento al populismo ma anzi esattamente per il suo contrario giacché solo una struttura istituzionale solida in presenza di una spinta alla frammentazione funziona da efficace parapetto.

Nessuna grande democrazia può reggere avendo al tempo stesso per un lungo periodo partiti deboli e istituzioni deboli. Laddove ci si trovi in quella situazione l’unica soluzione è ripartire dalle istituzioni perché le loro regole stringenti per così dire “producano istituzionalmente” i partiti, come spiegato da Duverger, Vedel e Avril. Mi sembra che le vicende francesi dove le istituzioni stanno reggendo di nuovo l’onda d’urto della discontinuità del sistema dei partiti vada in questo senso.

 

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Showing 2 comments
  • STRATEGHIA [2]
    Rispondi

    Buona sera Mi rendo conto che per esiguità sono riportati solo i suoi interventi. Tuttavia sarebbe stato interessante confrontarli o sapere cosa hanno espoto gli altri interlocutori

  • STRATEGHIA [2]
    Rispondi

    Il suo intervento sulla situazione attuale mi invita ad una riflessione – che non riguarda il suo intervento – ma la situazione attuale che sta affrontando la sinistra (PD/Progressisti Art.1) si è accennato alla fine del modello spagnolo …. ORA… ???? QUINDI ??? …

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