In Diario

Eravamo nel 2008 e l’allora Presidente del Senato Franco Marini mi telefonò per chiedermi se fosse opportuno candidarsi per l’assemblea Costituente del Pd. “Dall’Abruzzo me lo chiedono con insistenza – mi disse – e so che non ci sono impedimenti formali, ma mi chiedo se sia opportuno”. Franco Marini poi non si candidò e si rivelò anche in quel caso persona saggia.

Non credo sia stato per il mio parere negativo, in cui gli segnalai i problemi a entrare in campo sia per un Presidente di assemblea (che in un partito deve parlare di contenuti, ossia di leggi che devono passare al vaglio della sua Assemblea dove deve garantire tutti), ma anche per il supplente del Presidente della Repubblica (lunga vita ai Presidenti: ma se poi succede oro qualcosa e il supplente si trova nel mezzo di una crisi?).
Mi sbaglierò, ma in buona e ristretta compagnia, tra gli altri, di Fabio Martini, Gabriele Cané e Dino Cofrancesco, mi sembra invece che i nostri Presidenti di assemblea non solo decidano in senso opposto, ma non si pongano nemmeno il problema.
Si copre retoricamente  la figura del Presidente di Assemblea con una “mistica dell’imparzialità” che tende a nascondere anche suoi poteri ampiamente discrezionali  con decisioni non scontate. Ma questa mistica crolla del tutto, lasciando il re nudo, se i Presidenti, al di là delle posizioni di merito e di schieramento sostenute, che potrebbero essere le più giuste e condivisibili, entrano del tutto nelle dispute politiche contingenti. Fanno del male alle istituzioni e non è detto che facciano bene neanche a loro stessi e alle cause sostenute.
L’Italia è in fondo il Paese dove per non avere un (semi)presidenzialismo regolato si accettano come normali tanti presidenzialismi sregolati.
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