Il bicameralismo italiano in trasformazione
di Stefano Ceccanti
(sintesi della relazione che sarà svolta al convegno su “Il bicameralismo in Europa” della Société de Législation Comparée, Parigi, 16 ottobre)
“Amo talmente la Germania che preferisco che ce ne siano due”. Questa frase è di François Mauriac, anche se gli italiani la attribuiscono ad Andreotti. Dietro quell’affermazione vi erano le stesse ragioni che spinsero nell’ultima parte dei lavori dell’Assemblea Costituente, segnata dalla Guerra Fredda, ad approvare un bicameralismo ripetitivo. Analoga la conclusione: la sua messa in discussione ha strettamente a che fare con il cambiamento del quadro geopolitico che si espresse anche nella riunificazione tedesca.
Come ha fatto notare recentemente Fusaro, in modo assolutamente irrituale proprio nella seduta della Costituente in cui veniva approvato il testo una delle figure chiave, Meuccio Ruini, pur presentandolo con favore, di esso elogiava la non eccessiva rigidità delle norme relative alla revisione, tali da non cristallizzare il testo “in una statica immobilità”. Una scelta opportuna i perché prima o poi si sarebbe dovuto affrontare lo scarto tra una prima parte nella quale si aveva dato vita a un compromesso di grande qualità e una seconda, quella organizzativa, che presentava, invece, “gravi difficoltà” in particolare “sulla composizione delle due Camere e il loro sistema elettorale”; “noi, prima di tutti”, disse, “ne riconosciamo le imperfezioni”. Uno dei punti-chiave su cui sulla seconda parte si era verificato un cattivo compromesso era stato per l’appunto quello del bicameralismo. Nei primi mesi il conflitto era stato tra il monocameralismo delle sinistre, di matrice giacobina, e i democristiani che volevano raccordare nella seconda Camera le Regioni, come parte dei socialisti e i repubblicani, e le professioni. La soluzione giunta in Aula dalla Commissione era più spostata verso le tesi dei secondi: infatti essa prevedeva un Senato a composizione mista: per due terzi eletto a suffragio universale e diretto e per un terzo da parte dei Consigli regionali. Tuttavia, giunti in Aula, il problema diventò esclusivamente quello della garanzia reciproca tra i partiti separati dalla Guerra Fredda e non anche di un raccordo tra i legislatori statali e quelli regionali. In assenza di una seconda Camera che completasse il nuovo disegno, il rapporto centro-periferia diventò una variabile politica dipendente dai rapporti fra i partiti. Così si assisté a un capovolgimento: la Dc, in origine regionalista, uscita vincitrice dalle elezioni politiche, bloccò la nascita delle Regioni per non perdere quote di potere a fronte di avversari contrari alla collocazione internazionale del Paese; all’inverso le sinistre, originariamente centraliste, trovatesi all’opposizione del Governo nazionale, si misero a chiedere l’attuazione costituzionale.
Fino al 1989, ossia alla messa in discussione del primo sistema dei partiti ed anche dello Stato fortemente accentrato ad essi connesso, le proposte di riforma sono timide e comunque senza esito. Nel 1990, con le prime elezioni successive alla caduta del Muro di Berlino, il successo improvviso della Lega Lombarda nelle regionali, manifesta di nuovo un conflitto centro-periferia e, quindi, l’esigenza di un nuovo patto. Il rapporto politico centro-periferia diventa ora anche una questione istituzionale. Non esclusivamente istituzionale perché il fatto che un partito, la Lega, se ne facesse portatore ha in parte alterato il contenuto delle riforme. Talora esse sono state pensate più in relazione all’acquisizione del suo consenso che non alle soluzioni istituzionali che sarebbero state più adeguate, a cominciare dall’uso del termine federalismo, in luogo di quello più corretto di nuovo regionalismo o regionalismo di ispirazione federale. Al di là della differenza astratta, quella scelta finiva per promettere più di quanto fosse logico e ragionevole.
Dopo il fallimento della Commissione D’Alema la legislatura 1996-2001 si chiudeva con lo stralcio della sola riforma del Titolo V che rafforzava (con alcuni eccessi che andavano al di là di quanto prevedono Costituzioni tipicamente federali), la competenza legislativa delle Regioni. Una norma transitoria richiamava la necessità di una riforma del Senato e, nel frattempo, prevedeva un principio di integrazione della Commissione Bicamerale per le Questioni regionali con rappresentati di Regioni ed enti locali. Non sarebbe mai stata applicata.
Nella breve legislatura successiva, 2006-2008, invece, fu avviato alla Camera in Commissione Affari Costituzionali l’esame della cosiddetta “bozza Violante” che, tra l’altro, creava un Senato di secondo livello, composto di rappresentanti di Regioni ed enti locali, riducendo per la pima volta il potere di rinvio del Senato a una dimensione fisiologica, analoga a quella dei bicameralismi europei.
In quella 2008-2013 non fu possibile avviare nessuna riforma giacché la prima parte della legislatura segnò una nuova conflittualità tra gli opposti schieramenti, mentre la seconda, col Governo tecnico Monti, vide affermare la teoria secondo la quale l’esecutivo si sarebbe occupato della sola emergenza economica, mentre le forze politiche avrebbero provveduto, a prescindere dal Governo, a realizzare intese in materia istituzionale. Ma senza alcun coinvolgimento dell’esecutivo il compito si rivelò, come prevedibile, improbo: le principali riforme sono infatti state sempre possibili solo coinvolgendo direttamente l’autorità del Governo.
L’inizio della XVII legislatura, con un’inedita situazione di blocco dovuta al mancato esito decisivo al Senato e l’incapacità delle forze politiche prima di costituire il Governo e poi di trovare un successore al Presidente Napolitano, si dimostrò paradossalmente propizia per le prospettive della riforma. Per facilitarla, tra schieramenti che per due decenni avevano aspramente polemizzato, anche sul piano costituzionale, di norma sopravvalutando artificialmente le differenze, su spinta del Presidente Napolitano, il Governo Letta istituiva una Commissione di esperti presieduta dal Ministro Quagliariello, che concludeva i suoi lavori nel settembre 2013. Pur presentando su vari punti, anche sul bicameralismo, soluzioni diverse, la relazione dimostrava l’ampiezza dei consensi su una piattaforma di “riformismo istituzionale bipartisan”: una riforma era possibile e necessaria, legata a una fedeltà dinamica al testo del 1947-1948 depurato dal complesso del tiranno ormai sostenuto da un minoritario “costituzionalismo ansiogeno” (Fusaro). In questo contesto vennero rapidamente elaborate larga parte delle proposte dell’attuale testo di riforma Renzi-Boschi.
Tuttavia le dinamiche politiche, unite alla lentezza dei tempi della revisione, riproducevano il problema già visto alla Costituente. Anche in questo caso le forze politiche che ad inizio legislatura si erano trovate insieme sia al governo sia sulle riforme ad un certo punto separano le loro sorti rispetto alla maggioranza di Governo. L’incognita era se la collaborazione sulle riforme avrebbe retto a tale frattura o meno. Sul momento, con la costituzione del nuovo Governo Renzi, la prospettiva sembrò positiva L’intesa durò sino all’elezione del Presidente Mattarella nel gennaio 2015. Forza Italia prese allora la decisione di rompere l’intesa sulle istituzioni con l’argomento dichiarato di aver dovuto subire la scelta non concordata in precedenza, ma, secondo molti osservatori, a causa della difficoltà a spiegare al proprio elettorato una posizione complessa (all’opposizione del Governo, ma a favore delle riforme col Governo): in ogni caso nessuna delle due era legata al contenuto delle riforme.
Si può pertanto dire che quella che dovrebbe essere approvata dal Parlamento è una riforma condivisa nei suoi contenuti, ma non condivisa nel voto finale; in ogni caso, il tasso effettivo di condivisione sarà poi verificato sulla base di come si esprimeranno gli elettori nel referendum.
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