In Diario

FARE COME COPPI (SE SERVE EFFICIENZA)

Caro direttore, il 10 giugno 1949 si svolse la leggendaria diciassettesima tappa del trentaduesimo Giro d’Italia (Cuneo-Pinerolo): 254 chilometri, con le strade di quei tempi; nel mezzo niente di meno che il Colle della Maddalena, il Colle dell’Izoard, il Monginevro e, per dessert, il Sestriere.  Vinse, si sa, il Campionissimo, che conquistò la maglia rosa rifilando quel giorno quasi 12 minuti al nostro Ginone Bartali (di Ponte a Ema) e quasi 20 ad Alfredo Martini (pure di Firenze: il futuro mitico commissario della nazionale italiana di ciclismo). Coppi quel Giro lo vinse: 24 minuti di vantaggio sul secondo, sempre Bartali. Fu all’inizio del collegamento radio per quella tappa con arrivo a Pinerolo che il giornalista Rai Mario Ferretti cominciò il collegamento con una frase destinata a restare celebre quasi come la vittoria di quel campione: «Egregi ascoltatori, un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste (quella della Bianchi), il suo nome è… Fausto Coppi». La formula dell’«uomo solo al comando» è stata da allora ripresa soprattutto in ambito sportivo, per poi passare ad altri campi, a partire dall’economia, e sfondare, infine, in ambito politico, allontanandosi in varia misura dal significato originale. In campo sportivo «uomo solo al comando» è stato usato per l’allenatore della Nazionale Antonio Conte e per quello della Roma Luciano Spalletti: più che per indicare una nitida leadership che per segnalare il fatto che sono parsi, talora, senza il seguito che avrebbero meritato rispettivamente nella Federcalcio e nella Roma. È stato usato per il formidabile attaccante gallese Gareth Bale (unico grande giocatore della sua nazionale) e — con connotazione elogiativa — per il nuotatore Greg Paltrinieri, per il ciclista Vincenzo Nibali, nonché per un altro abituato a vincere, l’inglese Chris Froome. In economia è spuntato per il costruttore e finanziere romano Francesco Gaetano (Franco) Caltagirone, probabilmente perché — dopo Mediobanca — è il maggiore azionista delle Assicurazioni Generali. Ora è diventata una trita metafora usata spesso se non sempre come un insulto, una critica presa di distanza, una censura ammiccante volta a denunciare tendenze autoritarie. Non poteva mancare — perciò — il reiterato uso di «uomo solo al comando» per il presidente turco Recep Erdogan, leader in effetti di assai dubbie credenziali democratiche. Nella politica italiana, l’espressione si ritrova collaudata per il sindaco di Parma Federico Pizzarotti: col significato, in questo caso, di leader lasciato solo da quelli della sua parte (è ai margini del Movimento 5 Stelle di cui è stato il primo sindaco in una città medio-grande). È stato usato anche per Lorenzo Dellai già sindaco di Trento e presidente per 13 anni della giunta provinciale trentina («Solo al comando» si intitola un libro inchiesta dal sottotitolo significativo: Dellai, i gregari, il Trentino). Ma «uomo solo al comando» per eccellenza è diventato Matteo Renzi. Il termine gli viene appioppato con significati plurimi sia con riferimento al fatto che guida il Pd (per dire che è lasciato solo da parte della dirigenza e certo dalla vecchia guardia, per dire che tende a voler fare da sé, per dire che sarebbe circondato da poche personalità di propria fiducia); sia con riferimento alla presidenza del Consiglio: per dire che ha una certa tendenza ad esporsi in prima persona e a fare di testa sua, per lasciare intendere che nutrirebbe una presunta propensione autocratica. Soprattutto parlano di «uomo solo al comando» tutti coloro che vedono come il fumo negli occhi qualsiasi rafforzamento della leadership democratica: la formula è diventata una specie di tormentone dei fautori del «no» alla riforma costituzionale, con particolar riferimento ai cultori del famigerato «combinato disposto» fra riforma costituzionale e legge elettorale del 2015 (l’Italicum). Siccome la prima abolisce finalmente il meccanismo assurdo della doppia fiducia, e la seconda promette una maggioranza nell’unica Camera da cui dipenderà la vita del governo al partito che vince le elezioni, ecco la tiritera sui pericoli dell’«uomo solo al comando», sui rischi di eccessivo accentramento di potere, con rozzi collegamenti fra Benito Mussolini, Licio Gelli, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi e appunto Matteo Renzi. A nulla vale rammentare che la nostra è una matura poliarchia nella quale, se mai, il potere politico è fin troppo spezzettato ed è comunque opportunamente controllato (i vincoli europei, i controlli di una magistratura indipendente, le lenti della Corte costituzionale, gli strali di una stampa libera, un sistema di imprese che fa i suoi interessi, una società nella quale è presente un associazionismo irriducibile a ogni irreggimentazione, la finanza internazionale in agguato…). Tutto inutile. E sì che un fiorentino d’adozione, il genovese sociologo Luciano Cavalli, critico della democrazia acefala (senza testa), già nel lontano 1992 ammoniva contro le mistificazioni di chi condanna la democrazia con leadership personalizzata (così la chiamava) vituperandola per una presunta connessione con il «carisma», il «plebiscito» e la «dittatura», e invitava a riflettere che una delle lezioni del Novecento è stata proprio che sono le democrazie deboli e senza guida, non quelle forti e (ben) guidate, a correre i rischi maggiori. Prima ci leviamo dalla testa che le democrazie, per esser tali, non devono avere un leader o se ce l’hanno lo devono avere il più fragile possibile, meglio sarà. E poi il vero è che la riforma costituzionale non ci darà alcun «uomo solo al comando», ma solo la possibilità (la possibilità, non la certezza) di un sistema di governo un po’ più chiaro, stabile, autorevole e, perci ò, potenzialmente efficace. Ma è proprio quello che alcuni non vogliono.

Carlo Fusaro (Carlo Fusaro è attualmente presidente del comitato scientifico del comitato toscano per il Sì al referendum costituzionale)

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