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L’equilibrio tra legge elettorale e costituzione

Sulla base di quali parametri va valutato il combinato disposto tra Italicum e riforma costituzionale? Il primo è evidente se si parte come premessa dal fatto che l’Italia del 2015 non è un classico Stato sovrano, come da categoria tradizionali, ma uno Stato membro dell’Unione europea, anzi all’interno di quest’ultima componente anche dello spazio economico comune della zona Euro. Se si parte da quest’angolazione, difficilmente eludibile, se ne ricava che la nostra è l’unica grande democrazia europea che non è in grado di assicurare al Consiglio europeo e alle riunioni dei ministri una continuità di indirizzo politico e di personale. Immaginiamoci, ad esempio, quali aspettative possa nutrire David Cameron sui nostri esecutivi e sulla loro capacità a prendere e mantenere impegni, avendo già visto alternarsi Berlusconi, Monti, Letta e Renzi.

Il primo criterio deve essere quindi quello della costruzione di un sistema coerente di incentivi (elettorali, costituzionali, di regolamenti parlamentari, di normativa elettorale di contorno) che spinga verso governi di legislatura. Al momento si è agito solo sul primo livello, quella della formula elettorale, con la legge 52/2015, il cosiddetto Italicum. La decisione però di competere solo sulla base di liste e non anche di coalizioni richiederebbe un adeguamento quanto mai tempestivo dei Regolamenti parlamentari. Infatti le liste possono bene essere liste coalizionali, che fondano cioè forze diverse: scelta legittima, che evita comunque che le forze politiche siano al contempo alleate ed avversarie, come accadeva con le coalizioni pre-elettorali, ma che ha poi bisogno che il Parlamento non divida ciò che il corpo elettorale ha unito. Ferma la libertà di spostamento del singolo, legata al divieto di mandato imperativo, la costituzione dei soggetti collettivi deve invece superare, come in vari altri ordinamenti, a partire da quello spagnolo, i requisiti solo numerici per aggiungerne anche di politici, ossia per affermare la coincidenza tra liste e gruppi parlamentari. La coerenza del sistema sarebbe anche aiutata da un testo unico sui partiti politici, che superasse la frammentazione attuale della disciplina, contenuta soprattutto nella legge relativa ai requisiti per accedere al residuo finanziamento pubblico del due per mille, a cui rinvia anche l’Italicum, vincolando ad essi anche per la presentazione delle liste, Spingendo tale testo anche fino a una regolamentazione pubblicistica delle primarie, usando la leva dell’incentivo del due per mille per coloro che scelgano tale modalità. La riforma costituzionale agisce anche su un punto importante relativo alla forma di governo, sopprimendo il doppio rapporto fiduciario. Un intervento necessario, anche se più avanti occorrerà ragionare sugli ulteriori correttivi di razionalizzazione su fiducia, sfiducia e scioglimento presenti nella relazione degli esperti nominata dal Governo Letta, il cui programma d ammodernamento del sistema era ben più incisiva di quella concretamente varata col combinato disposto attuale.

Questa ricognizione complessiva su sistema di incentivi su cui ho appena insistito ci serve a capire anzitutto che la presunta concentrazione di poteri che discenderebbe dalle riforme in essere non esiste in alcun modo ma anche che le sole modifiche fin qui varate non possono essere presentate come pienamente risolutive dei nostri problemi. Ovviamente la loro entrata in vigore (cosa già avvenuta con l’Italicum) e lo scontro politico sul referendum approvativo finale (per quella costituzionale) avrà comunque un valore di passaggio politico decisivo anche al di là dei contenuti stessi. Vale per certi versi (anche se qui i contenuti sono ben più incisivi) il paragone con il referendum di trent’anni fa sull’accordo di S. Valentino sulla sterilizzazione di quattro punti di scala mobile, la cui conferma popolare consentì una politica dei redditi che andò molto oltre quell’intervento. Nello scenario positivo marcherà il definitivo superamento di quel complesso del tiranno che aveva colpito le forze politiche italiane specie dopo la rottura di governo della primavera 1947, portando ad eludere l’ordine del giorno Perassi votato in commissione che auspicava l’adozione della forma di governo parlamentare con opportuni correttivi che evitassero una deriva assembleare. L’intervento sulla legge elettorale, pur parziale, con qualche peferenza di troppo e con un po’ più di proporzionale di quello che sarebbe astrattamente necessaria, e poi completato dalla fine del doppio rapporto fiduciario, consente comunque che ad inizio legislatura si evitino le due alternative possibili, quelle viste nel 2013, ossia una grande coalizione eterogenea (e sostanzialmente impotente) e l’incubo di elezioni a ripetizione per l’incapacità a stringere accordi.

Il secondo criterio deve essere lo sgonfiamento del contenzioso tra Stato e Regioni che in vari anni arriva ad appesantire in modo anomalo il lavoro della Corte costituzionale fino al cinquanta per cento delle cause trattate. Anche qui la riforma costituzionale coglie nel segno perché non pensa di agire in modo illuministico solo intervenendo sugli elenchi di materie, i quali possono risolvere solo una parte limitata del problema perché un certo grado di sovrapposizione è inevitabile, ma che intende agire nel senso della responsabilizzazione nazionale dei legislatori regionali, chiamati ad esprimere un’ampia maggioranza del Senato. Anche qui, come nel caso della forma di governo, si riprende in realtà quanto elaborato dalla Commissione dei settantacinque prima della rottura della Primavera 1947, quando il progetto di Costituzione aveva immaginato una presenza di u terzo di senatori di derivazione dai Consigli regionali in presenza di uno stato ancora molto accentrato ma che intendeva aprirsi agli enti intermedi.

Se i criteri sono questi due e se i vincoli erano quelli di raccogliere maggioranze relativamente ampie e stabili per votare le riforme, non c’è quindi dubbio che, pur essendovi astrattamente altre ipotesi alternative non meno coerenti (la forma di governo francese, il Bundesrat tedesco), il combinato disposto di cui parliamo supera di molto la sufficienza. Sempre che si voglia sfuggire anche al classico massimalismo professorale per cui i criteri finirebbero col coincidere solo con una sola soluzione, quella magari inventata dal medesimo studioso che valuta le riforme, e inevitabilmente diversa da quella di altri studiosi ugualmente competenti.

 
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