In Diario

Lezione 23 di diritto parlamentare.

 

I PARTE – PROF. MODUGNO IN COLLEGAMENTO SKYPE DA PARIGI.

Il professor Paolo Modugno ha evidenziato il grande successo del primo turno delle prime primarie della destra francese. Hanno partecipato infatti 4.028.844 elettori, un dato storico. Ci sono stati soprattutto altri due elementi di sorpresa. In primis, la vittoria di Fillon, con uno scarto amlpissimo, ai danni del favorito Juppé (44,1% vs. 28,6%). La seconda sorpresa è stata la debacle di Sarkozy, fermo al 20,6%, nonostante avesse più parlamentari in appoggio rispetto agli altri candidati (più di 20,000 e 130 parlamentari). Sicuramente l’alta affluenza non ha giocato in suo favore.

 

A questo punto, il vincitore delle primarie (probabile Fillon, dato che Sarkozy ha annunciato di appoggiarlo) andrà a scontrarsi nel futuro ballottaggio presidenziale, secondo il parere di molti esperti, con una Marine Le Pen in forte ascesa.

 

Secondo quanto riferito dal prof. Modugno Juppé e Sarkozy hanno sbagliato tattica, impostando la campagna delle primarie come se fossero delle presidenziali. Il primo, ad esempio, spostandosi verso il centro, nell’intento di attirare elettori centristi o anche i delusi di sinistra, il secondo verso i simpatizzanti Fn. Tuttavia, dopo il 27 novembre, data del ballottaggio, si auspica fra i repubblicani che tutti i candidati facciano squadra attorno al vincitore.

 

Chi è Fillon. Fillon è un conservatore per quanto riguarda la cultura e i le questioni di società; mentre viene considerato un liberist in ambito economico, tanto da essere considerato un “ultraliberale”. Ha intercettato i voti dei cattolici tradizionali e ha presentato un programma di tipo radicale nei confronti della “questione islamica”.

 

In vista delle primarie del partito socialista il 22 e 29 gennaio, per la prima volta potrebbe partecipare anche il presidente in carica, Hollande, rischiando di essere bocciato. C’è poi l’incognita Valls (che mantiene al momento una linea “legittimista”). Altra incognita è il giovane Emmanuel Macron, che si presenterebbe al di fuori degli schemi tradizionali di destra e sinistra. Si presenterebbe quindi senza passare per le primarie. Come il candidato del “front gauche” Melenchon. Comunque, non è mai successo che candidati al di fuori dei partiti vadano molto lontano, anche in prospettiva delle successive elezioni per il rinnovo della Camera.

 

Ma Macron ha le firme? Secondo il Prof. Modugno ci sono, in quanto Macron – dice – ha dei network importanti nella politica francese ed è anche molto forte nel mondo dei mass media. Inoltre ha già diversi uomini politici eletti che lo sostengono (anche se un po’ nell’ombra per ora). Ci sono addirittura diverse voci che dicono che abbia già trovato le firme.

 

Il Partito Repubblicano è in crisi dal 2012. Tuttavia dopo l’arrivo di Sarkozy si è rivitalizzato, e a maggior ragione anche oggi con queste primarie storiche. Se aggiungiamo inoltre che in generale, nel paese, vi è una grande voglia di alternanza, e che Hollande è ai minimi livelli di gradimento, appare chiaro come le prossime presidenziali rappresentino per la destra francese una importante occasione di rilancio. Fillon ha più “presidenziallità” rispetto a Juppè rispetto alla “posture”, essendo il primo molto più giovane.

 

Juppè ha margini di recupero reali? Dal punto di vista matematico no, dato che ci sarebbe l’apporto di Sarkozy in favore di Fillon. Tuttavia la corsa resta aperta se consideriamo che c’è altissima volatilità. Infatti gli elettori, come è emerso in questo primo turno, volevano eliminare Sarkozy dalla corsa alla presidenza. A questo punto, se Juppé farà un dibattito brillante, riuscendo a mettere in cattiva luce il programma di Fillon, avrebbe qualche speranza. In linea di massima, però, restano ridotte le sue possibilità.

 

L’esito di queste primarie potrebbe rappresentare un fattore positivo per la sinistra in generale in quanto Fillon è il candidato esposto più a destra. Perciò la sinistra potrebbe riuscire a compattarsi difronte  a questo tipo di candidato di destra.

 

Fillon ha due debolezze dal punto di vista ideologico:

  • È stato in origine il candidato della sinistra del partito gollista, poco liberale e molto statalista (gollismo sociale);
  • Politica estera: Fillon è un grande alleato della Russia.

 

Macron potrebbe dunque puntare su queste due debolezze, e dare una immagine di Fillon come rappresentante del vecchio.

 

 

 

 

II PARTE – I RAPPORTI TRA PARLAMENTO E CORTE COSTITUZIONALE

 

(A cura del dott. Luca Bartolucci)

 

Il punto di partenza per indagare i rapporti tra Parlamento e Corte costituzionale non può che essere quello della rigidità costituzionale. Le Costituzioni rigide, infatti, sono gerarchicamente sovraordinate alle leggi ordinarie, possono essere cambiate solo attraverso una procedura aggravata e serve un organo che controlli che le leggi e gli altri atti aventi forza di legge non siano in contrasto con la Costituzione e i suoi principi.

In questo senso, per democrazie costituzionali possono intendersi quegli ordinamenti giuridici che, pur facendo proprio il principio democratico, impongono al potere politico limiti esterni, derivanti direttamente dalla Costituzione: si sottare, così facendo, alla forma democratica quell’assenza di limiti che il potere democraticamente formatosi spesso esigeva. Nelle attuali società democratiche, caratterizzate da un grande pluralismo, si affidano le decisioni collettive al principio di maggioranza, ma ci sono un insieme di principi e regole sottratti alle contrapposizioni tra maggioranza e opposizione.

La giustizia costituzionale è dunque uno strumento per garantire la superiorità della Costituzione anzitutto nei confronti del potere legislativo. La Corte costituzionale, in questo senso, ha una funzione di garanzia “contro-maggioritaria”: contenere il potere delle maggioranze per evitare le degenerazioni della democrazia e far prevalere i valori costituzionali sugli interessi delle maggioranze contingenti.

 

La giustizia costituzionale nasce nell’esperienza statunitense all’inizio dell’Ottocento, con la sentenza Marbury vs. Madison, nel quale il giudice Marshall disapplica la norma di legge contrastante con la Costituzione perché deve applicare la norma della Costituzione. Vi è dunque un sindacato di costituzionalità diffuso, col rischio che vi siano differenze caso per caso, poiché la legge in contrasto con la Costituzione non cessa di avere efficacia erga omnes ma viene disapplicata caso per caso. Tuttavia questo rischio è attenuto dal precedente vincolante e dal ruolo della Corte Suprema.

Nell’Europa-continentale si afferma un modello diverso di giustizia costituzionale: quello di un’unica Corte cui affidare un sindacato accentrato di costituzionalità che comporta l’annullamento, con efficacia erga omnes, della norma. In questo modo, in base al modello kelseniano, il giudice costituzionale si configura come un contropotere rispetto al potere legislativo, ossia come un “legislatore negativo”.

 

Questa è una delle ragioni per cui per il Parlamento l’avvento di una Costituzione rigida e della Corte costituzionale ha rappresentato, per così dire, un “trauma”: il Parlamento perdeva così, infatti, la sua “onnipotenza” e si creava un organo con il potere di porre nel nulla i suoi atti legislativi.

Questo spiega anche perché in Assemblea costituente non mancarono resistenza all’istituzione della Corte costituzionale.

Palmiro Togliatti (segretario del PCI) aveva forti riserve sull’opportunità di creare un consesso di 15 “illustri […] cittadini collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici”.

Per Piero Calamandrei, invece, la Corte costituzionale fu una delle prime vittime del c.d. “ostruzionismo di maggioranza”.

La Corte venne istituita, infatti, solo nel 1956, dopo otto anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

 

Queste le principali disposizioni costituzionali sulla Corte e sul suo rapporto col Parlamento.

 

Art. 134, primo comma, Cost.

La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni.

 

Art. 135, primo comma, Cost.

La Corte costituzionale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative.

 

Art. 135, sesto comma, Cost.

L’ufficio di giudice della Corte è incompatibile con quello di membro del Parlamento, di un Consiglio regionale, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni carica ed ufficio indicati dalla legge.

 

Art. 136, secondo comma, Cost.

La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali.

 

 

 

L’originario modello kelseniano, che intendeva il giudice delle leggi come mero legislatore negativo, tuttavia, si è presto radicalmente evoluto, sia in ragione della complessità del ruolo assunto dalla Corte costituzionale, sia per adattarsi alle concrete esigenze dell’ordinamento.

In particolare, possono individuarsi alcune delle concause che hanno portato all’evoluzione del ruolo della Corte nell’ordinamento italiano e ad un sindacato di costituzionalità più penetrante:

  • La Corte italiana ha fin da subito rifiutato la secca alternativa tra sentenze di rigetto e sentenze di accoglimento, creando tutta una serie di strumenti decisori che hanno consentito alla Corte di rispondere alle esigenze dei casi concreti, garantendo l’attuazione della Costituzione;
  • La presenza in Costituzione di disposizioni programmatiche, e anche di una certa genericità;
  • L’inerzia parlamentare, che ha aumentato l’attivismo della Corte costituzionale, nonché l’alto grado di disomogeneità e di frammentazione che ha caratterizzato la vita del sistema politico italiano, che ha finito con spingere la Corte costituzionale ad assumere un ruolo di “supplenza”;
  • Più recentemente la riforma costituzionale del 2001, che ha modificato il Titolo V, accrescendo le competenze legislative delle Regioni e creando un ampio contenzioso tra Stato e Regioni dinanzi la Corte costituzionale (anche forse per l’inattuazione dell’art. 11 della l. cost. n. 3 del 2001, che prevedeva l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti di Regioni ed enti locali).

 

Sono le corti stesse ad aver sviluppato alcuni strumenti per rendere più “sopportabili” le sue sentenze per il sistema politico.

 

 

ALCUNE TIPOLOGIE DI SENTENZE DELLA CORTE CHE INCIDONO SUI RAPPORTI COL PARLAMENTO

 

Analizzare, a tal proposito, le tipologie di sentenze della Corte può essere utile per un rapido sguardo sui rapporti tra Corte e legislatore.

 

Non si analizzano invece le sentenze interpretative, sia di rigetto sia di accoglimento, che sembrano essere rivolte più agli altri giudici che non al legislatore.

Si pensi, innanzitutto, alle sentenze di accoglimento, che facendo cessare l’efficacia di una legge o di parte di essa, impongono al legislatore di tornare sul punto, qualora voglia di nuovo intervenire in materia: in questo caso, evidentemente, il legislatore non potrà persistere nella stessa disciplina già bocciata dalla Corte.

Si ritiene, in particolare, non solo che sia precluso per il legislatore approvare una legge che confermi per il passato la norma censurata ma anche una legge che la riproduca per il futuro.

 

In secondo luogo, si pensi alle sentenze additive, nelle quali la declaratoria di incostituzionalità colpisce la disposizione “nella parte in cui non prevede” qualcosa, aggiungendolo così alla norma oggetto del giudizio. In questo caso il giudice costituzionale integra il lavoro del legislatore.

Vezio Crisafulli parla di “rime obbligate”: la Corte non crea liberamente la norma (come farebbe il legislatore), ma individua quella norma a rime obbligate, già implicata dal sistema e dalle disposizioni costituzionali che ha applicato.

 

Si pensi, ancora, alle sentenze additive di prestazione, che si caratterizzano per l’introduzione, da parte della Corte, di una prestazione “nuova” (o una “nuova” categoria di beneficiari): sentenze, queste, “che costano”, che hanno cioè spesso riflessi finanziari. In questo caso spetterà a Parlamento e Governo trovare le risorse per “coprire” la nuova prestazione o la nuova categoria di beneficiari.

 

Con le sentenze additive di principio la Corte, dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto del giudizio “nella parte in cui non” prevede qualcosa. A differenza delle additive, però, la Corte in questo caso non aggiunge il frammento di norma mancante, per non sostituirsi al legislatore, ma si limita a indicare il principio generale cui dovrà rifarsi il legislatore nel riempire la lacuna. Con questi tipi di sentenze la Corte instaura quindi un dialogo col legislatore, che è tenuto ad agire nei binari tracciati dalla Corte.

 

Le decisioni sostitutive dichiarano l’illegittimità costituzionale della disposizione “nella parte in cui prevede” una cosa “anziché” un’altra.

 

Ancora, quando la Corte riconosce il contrasto tra la normativa impugnata ed i principi costituzionali, ma non dichiara l’illegittimità della normativa, si parla di sentenze di incostituzionalità accertata, ma non dichiarata, o di sentenze di rigetto o di inammissibilità, con accertamento di incostituzionalità. Anche in questi casi, si attende un intervento del legislatore, che sani i vizi accertati, ma non dichiarati, nei giudizi della Corte.

 

Vi sono poi altre tipologie di intervento: i moniti, coi quali si consegna un avvertimento al legislatore. Sono in genere sentenze di infondatezza o inammissibilità che contengono nella motivazione un avvertimento (e a volte anche una “minaccia”) al legislatore.

 

 

I RAPPORTI DELLA CORTE CON IL PARLAMENTO ATTRAVERSO LA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE SU ALCUNE FONTI DEL DIRITTO

 

Anche in altri modi la Corte influisce non solo sull’attività del Parlamento ma anche sui rapporti tra Parlamento e Governo nell’attività legislativa. Si pensi alla giurisprudenza costituzionale sulla decretazione d’urgenza e a quella sui regolamenti parlamentari.

 

La giurisprudenza costituzionale sulla decretazione d’urgenza ha di fatto cambiato il modo stesso in cui interpretare l’art. 77 Cost., che da norma sui limiti del Governo diventa ultimamente norma sui limiti del Parlamento.

La prima importante sentenza sui decreti-legge è la n. 360 del 1996, che ha vietato la reiterazione dei decreti-legge. Il Governo infatti era solito ripresentare il contenuto di un decreto-legge non convertito dal Parlamento in un nuovo decreto-legge. Il fenomeno era giunto, prima della sentenza della Corte, ad eccessi patologici. Vi è stata poi la sentenza n. 171 del 2007 (e sulla scia la sentenza n. 128 del 2008), riguardo alla sindacabilità dei presupposti di necessità e urgenza del decreto-legge.

Con due importanti sentenze il vincolo dell’art. 77 Cost. viene ora letto come limite per il Parlamento durante il procedimento di conversione. In particolare, la sentenza n. 22 del 2012, afferma che il procedimento di conversione si imbatte nel vincolo costituzionale dell’omogeneità delle modificazioni apportate dal Parlamento, rispetto al testo del decreto-legge. Ove tale omogeneità manchi, e la modificazione approvata dal Parlamento sia da ritenersi del tutto estranea (per oggetto o finalità) al testo del decreto-legge d’iniziativa del Governo, si ha illegittimità costituzionale della disposizione modificativa, recata dalla legge di conversione. La necessaria omogeneità del decreto-legge deve essere osservata dalla legge di conversione e quindi il Parlamento può sì emendare il decreto-legge, tuttavia rimanendo nell’alveo dei medesimi oggetti o delle medesime finalità di questo. Deve esserci dunque un “nesso funzionale” tra contenuto del decreto-legge e modifiche in sede di conversione.

Con la sentenza n. 32 del 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’equiparazione del trattamento sanzionatorio delle droghe “leggere” a quello delle droghe “pesanti”, recata dalla legge di conversione di un decreto-legge sulle Olimpiadi invernali di Torino. La Corte, nel solco della sentenza n. 22 del 2012, afferma che la fuoriuscita della legge di conversione dal nesso funzionale concreti non già un “esercizio improprio” di un potere (come aveva detto nell’altra sentenza) ma “carenza” di esso. La disciplina sulle droghe era stata infatti inserita in sede di conversione del decreto. Non si possono inserire, in sede di conversione del decreto disposizioni relative a “fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite”.

 

Diverso il discorso relativo al rapporto della Corte coi regolamenti parlamentari.

La Corte italiana si è sempre rifiutata non solo di valutare la loro conformità a Costituzione, ma anche di utilizzarli quali parametro del giudizio di costituzionalità delle leggi, quali norme “interposte” tra la Costituzione e la legge ordinaria.

La Corte non si dichiara competente a giudicare la legittimità costituzionale di una legge se nel procedimento non sono state seguite le prescrizioni dei regolamenti parlamentari.

Invece, la Corte si è dichiarata competente a dichiarare le violazioni delle norme costituzionali sul procedimento legislativo (si v. sentenze nn. 9 del 1959 e 154 del 1985).

 

 

LA GRADUALITÀ DELL’INTERVENTO DELLA CORTE E L’INERZIA DEL LEGISLATORE: DUE CASI CONCRETI

 

Unioni civili

La Corte dapprima interviene sul punto con la sentenza n. 138 del 2010 che contiene un monito secco al legislatore: spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per tali unioni.

Stante l’inerzia del legislatore, la Corte torna sul punto con la sentenza n. 170 del 2014, che è un’additiva di principio. La Corte denuncia l’inerzia del legislatore, che è ancora inadempiente in tema. Questa sentenza vincola il legislatore a disciplinare la materia. Di conseguenza, finché tale principio non trovi rispondenza in una legge, il legislatore è oggi inadempiente verso l’art. 2 Cost.

La sentenza non è manipolativa, cioè non interviene rendendo possibili le unioni civili.

Si può notare quindi la gradualità dell’intervento della Corte costituzionale: dapprima (con la sent. n. 138/2010) interviene sulla materia con una inammissibilità con monito, poi (sent. n. 170/2014) con una additiva di principio, stante la perdurante inerzia del legislatore in materia.

 

Legge elettorale

La prima volta la corte si pronunciò, con la sentenza n. 15 del 2008, sull’ammissibilità di un referendum abrogativo riguardante la legge elettorale. Fu questa l’occasione per lanciare un primo monito al legislatore, col quale si segnalava “l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”. Nella sentenza immediatamente successiva (n. 16 del 2008) la Corte ripeté le stesse parole.

Nel 2012 la corte fu nuovamente chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità di un referendum abrogativo di alcune disposizioni della legge elettorale. Nella sentenza n. 13 del 2012 la Corte non esitò a ripetere quanto già chiarito nel 2008, richiamando i precedenti moniti.

Nel corso dell’incontro annuale con la stampa del 2013 (la riunione straordinaria del 12 aprile 2013), il Presidente della corte Franco gallo lamentò la difficoltà a dialogare “proprio con il soggetto che della Corte dovrebbe essere il naturale interlocutore, e cioè il legislatore”. I moniti della Corte, infatti, “non equivalgono al mero auspicio ad un mutamento legislativo, ma costituiscono l’affermazione – resa nell’esercizio tipico delle funzioni della corte – che, in base alla costituzione, il legislatore è tenuto ad intervenire in materia”.

Stante la perdurante inerzia del legislatore in materia si arrivò alla sentenza n. 1 del 2014, che dichiarava costituzionalmente illegittime alcune disposizioni della legge elettorale del 2005, decretando il superamento di quella che spesso era definita una “zona franca” o una “zona d’ombra” del giudizio di legittimità costituzionale.

 

 

SEGUITO DELLE SENTENZE DELLA CORTE IN PARLAMENTO

 

Si pensi, infine, al seguito delle sentenze in Parlamento. Le decisioni sono comunicate alle Camere affinché “ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali” (art. 136 Cost.).

La costituzione immagina quindi dei possibili vuoti normativi che le camere dovrebbero riempire.

La realtà ha registrato vistose sfasature tra funzionalità della Corte e quella del Parlamento, incapace di stare dietro al ritmo degli annullamenti.

A livello procedurale l’art. 139 del regolamento del Senato prevede, al primo comma, che “nell’ipotesi in cui sia dichiarata, a norma dell’art. 136 della Costituzione, l’illegittimità di una legge o di un atto con forza di legge dello Stato, il Presidente comunica al Senato la decisione della Corte costituzionale non appena pervenutagli la relativa sentenza. Questa è stampata e trasmessa alla Commissione competente”, mentre il secondo comma aggiunge che “sono parimenti trasmesse alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che il Presidente del Senato giudichi opportuno sottoporre al loro esame”. Analogamente, alla Camera, l’art. 108, c. 1 dispone che “le sentenze della Corte costituzionale sono stampate, distribuite ed inviate contemporaneamente alla Commissione competente per materia e alla Commissione affari costituzionali”.

In particolare, è con delle risoluzioni – più prudentemente chiamati “documenti” – che si conclude l’esame delle sentenze della Corte costituzionale (139 r.S.) e anche quello delle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (108 r.C. e 127-bis r.C.).

I documenti coi quali si conclude l’esame delle sentenze indicano dei criteri informativi che fungono da primo passo per un’eventuale istruttoria legislativa in  tema.

Se invece un iniziativa legislativa sul tema è già in piedi, l’esame della sentenza è esaminata in quel procedimento, quindi non dà luogo a nuove iniziative ma serve da parametro per il procedimento legislativo.

 

 

LE RIFORMA COSTITUZIONALE E LE NOVITÀ RIGUARDANTI LA CORTE COSTITUZIONALE

 

La legge costituzionale approvata in seconda deliberazione della Camere il 12 aprile 2016 (e pubblicata, ai sensi dell’art. 3 della legge 25 maggio 1970, n. 352, in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 88 del 15 aprile 2016), all’art. 37 prevede una modifica dell’art. 135, primo comma, Cost. Per quanto riguarda l’elezione dei giudici costituzionali in “quota” parlamentare si prevede che tre siano eletti dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica. Tale funzione, evidentemente, è stata tolta al Parlamento in seduta comune a causa dello squilibrio numerico tra deputati e senatori previsto dal testo della legge costituzionale.

Un’altra importante novità riguarda la Corte costituzionale: l’introduzione di un giudizio preventivo di legittimità costituzionale sulle leggi elettorali. Tale giudizio preventivo interessa (attraverso una norma transitoria) anche le leggi elettorali approvate nella legislatura in corso alla data di entrata in vigore della legge di revisione costituzionale.

In particolare, l’art. 13, comma 1, della legge costituzionale introduce un giudizio preventivo di legittimità costituzionale per le leggi elettorali di Camera e Senato. Si prevede che “le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall’approvazione della legge prima dei quali la legge non può essere promulgata”. Si stabilisce, inoltre, che “la Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata”.

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