Non parlerò della storia, o delle storie, che sono all’origine del Partito democratico. Quelle storie sono ormai dietro le nostre spalle.
Siamo in questo luogo, nel quale il Partito democratico è nato, non solo per riaffermare, ma per rinnovare e rimotivare il progetto politico che allora fu definito. Non solo perché questo partito è prezioso per la democrazia italiana, visto che è l’unica alternativa esistente al partito personale e al partito-azienda (o azienda-partito). Anche per un’altra, forse più importante ragione. Abbiamo bisogno di un luogo politico nel quale elaborare risposte efficaci alla crisi sociale e culturale che stiamo vivendo. Il Pd è oggi in Italia l’unico soggetto che può sottrarsi alla tentazione delle risposte facili, quelle populiste e neonazionaliste (o sovraniste), che accarezzano i peggiori sentimenti di cittadini in difficoltà.
Viviamo in un mondo impaurito e incattivito, nel quale il futuro appare sempre più come una minaccia. Alla politica i cittadini chiedono protezione. La destra populista risponde col protezionismo, con la chiusura fisica e culturale, con i muri. C’è una risposta diversa, nella quale è impegnata la sinistra europea e non solo europea: protezione nella libertà e nella giustizia. Protezione come ampliamento delle opportunità e dei diritti, nella condivisione delle regole e dei doveri. La vera divisione politica della nostra epoca è questa; questa è la scommessa a cui è affidato il futuro della democrazia.
Sarebbe però un errore pensare che il malessere diffuso nel mondo sviluppato – che si è clamorosamente espresso nel voto inglese sulla Brexit, nelle elezioni americane, e nel successo dei partiti aintieuropeisti – si possa spiegare soltanto con ragioni economiche, con l’impoverimento del ceto medio o con gli effetti economici destabilizzanti della globalizzazione. Questi problemi ci sono e sono importanti, ma si inquadrano dentro una cornice più larga che è data da una perdita di identità, non tanto nazionale quanto culturale, che è dovuta allo spostamento dell’asse della politica globale fuori dall’Occidente e alla prepotente irruzione di nuovi forti protagonisti. La modernità occidentale, ed europea in primo luogo, è coincisa con un larghissimo dominio economico, politico e culturale. E’ una storia plurisecolare che viene alla fine con la globalizzazione. Da questo deriva la crisi culturale dell’Occidente, incerto tra universalismo e relativismo, tra apertura cosmopolita e chiusura identitaria. In difficoltà ad accettare di non essere più l’unico signore del mondo. Ma la globalizzazione non è revocabile. I suoi effetti negativi devono essere contrastati; ma non si può ignorare che la globalizzazione ha diminuito la disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri, ha sottratto milioni di persone alla povertà estrema, ha portato sulla scena del mondo aree prima subalterne o marginali.
C’è una distorsione nel modo di vedere la globalizzazione, che ha le sue ragioni, da comprendere e da correggere. Ma l’illusione di chi pensa di chiudere porte e finestre per tenerla fuori è pericolosissima, e deve essere combattuta. L’identità culturale di un grande paese democratico non si difende con l’arroccamento; si afferma puntando sulla sua parte migliore, che è quella dei valori di libertà e di giustizia, la capacità di inclusione, il rispetto delle persone.
L’Europa appare incapace di rispondere alla crisi, anzi ne è spesso concausa, proprio perché non è stata finora capace nè di costruire una nuova identità né di valorizzare le diverse identità che ne fanno parte. La reazione populista e di destra cavalca questo smarrimento, mentre il cosmopolitismo progressista è sempre più debole. Sottovalutare il tema dell’identità è un errore grave per i democratici: significa abbandonarlo alla destra e rinunciare alla sfida più grande, che è quella di ricostruire una identità europea senza abbandonare l’ispirazione inclusiva ed egualitaria che è la migliore eredità del movimento democratico. Un mondo attraversato da muri fisici e mentali è più povero, sia in senso economico che culturale. L’eguaglianza nella libertà, la giustizia, il valore della vita di tutti gli individui di qualunque colore e religione, possono e devono essere coniugati con la protezione e la sicurezza. L’apertura agli altri, il rispetto per le altre culture possono e devono essere coniugati con il radicamento nella nostra cultura e nella nostra identità.
Il Pd è in grado di affrontare queste sfide con il suo grande patrimonio di cultura politica e di esperienza di governo. Purché non venga meno a quella che è dalla nascita la sua missione: ridefinire e ricollocare la sinistra riformista. Questa è con tutta evidenza la posta in gioco del Congresso. Vengono proposte idee diverse del profilo politico di questo partito. Da una parte un’idea populista, dall’altra un’idea a mio parere rispettabile, ma volta al passato più che al futuro.
Dieci anni fa, Veltroni definiva il Pd “il partito dell’innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il nostro Paese”.
E osservava che “l’Europa è andata a destra, in questi anni, perché la sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è risposto con la logica dei “blocchi sociali” e della pura tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società”.
Questa, pur tra errori e fallimenti, tra passi avanti e passi indietro (basti pensare alle elezioni del 2013), è stata l’ispirazione del Pd; ed è stata messa in opera dal governo Renzi nei tre anni che abbiamo alle spalle. Tornare indietro significherebbe rinunciare al progetto politico rappresentato dal Partito democratico.
Il Pd è la sinistra riformista e di governo. E’ il centrosinistra, che non è la somma di sinistra+centro, dove la sinistra circoscrive il proprio territorio in un perimetro limitato da categorie novecentesche, delegando al centro il compito di rappresentare ciò che resta fuori da quel perimetro: le imprese, il lavoro autonomo, le famiglie. In questo schema centro e sinistra sono ambedue residuali. Centrosinistra non è una formula di alleanze, ma il nome di una sinistra nuova, una sinistra in grado di intercettare bisogni e speranze del nostro tempo. Non più post-comunista: questa è una storia finita, una storia che ha avuto i suoi meriti in un altro tempo, in un altro equilibrio internazionale, in un altro assetto politico, ma non può avere niente da dire al mondo di oggi. E non vale illudersi di riesumare la spinta propulsiva della rivoluzione socialista, che già Berlinguer, in anni ormai molto lontani, ha dichiarato esaurita. Ma neanche può essere una sinistra solo socialdemocratica: in tutta Europa le socialdemocrazie sono in difficoltà, salvo là dove – come in Germania – hanno avuto il coraggio di affrontare profonde riforme del lavoro e della società, anche pagando dei prezzi in termini di consenso.
Il Pd è nato per unificare l’ispirazione socialdemocratica e l’ispirazione liberaldemocratica. L’obiettivo dell’eguaglianza con quello della libertà, il ruolo necessario dello Stato con quello pure necessario del mercato, della concorrenza, dell’impresa. E’ la sinistra delle opportunità, e sappiamo che per creare opportunità non serve espandere fuor di misura lo Stato, ma serve che le istituzioni pubbliche lavorino insieme ai tanti soggetti sociali per aumentare concretamente le chances di istruzione, di lavoro, di vita per tutti. Serve puntare sulle comunità e insieme sugli individui, perché le comunità sono mantenute in vita dagli individui, dalla loro voglia di una vita migliore. Abbiamo visto quali sono le tendenze demografiche. Si deve intervenire in senso economico e fiscale a favore delle famiglie, ma sia chiaro che se non si riesce a ridare fiducia agli individui – e in primo luogo naturalmente alle donne – l’Italia non ha futuro, anche da questo punto di vista.
Oggi qualcuno propone di tornare indietro, ripiegare sui miti e i riti del Novecento. Se ci facessimo trascinare in questa direzione, lasceremmo un vuoto politico che inevitabilmente sarebbe occupato dalle forze populiste. Si deve invece andare avanti. Si deve mettere in campo un nuovo programma di riforme, perché il compito di ricostruire l’Italia, che comincia ora a uscire da una durissima crisi, è tutt’altro che compiuto. Abbiamo vissuto, col governo Renzi, una stagione di riforme quale in Italia non si vedeva da trent’anni almeno. Ci sono stati degli errori, ma non per questo si può sottovalutare l’importanza di quello che è stato fatto. Si deve continuare, perché siamo solo all’inizio dell’opera. Vogliamo costruire un’Italia più giusta e più libera perché più efficiente, più veloce, più giovane.
Per parafrasare, con un po’ di ironia, un vecchio detto, la sinistra riformista non si limita a interpretare il mondo: non si limita a denunciarne le storture, a indignarsi per le ingiustizie. Ha l’ambizione di cambiarlo, questo mondo, per renderlo più giusto e più ricco.