Mi sembra che il punto chiave lo colgano Giorgio Tonini sul Sole e Massimo Adinolfi sul Mattino. Al di là di questioni particolari, si stanno scontrando due idee diverse di democrazia parlamentare per cui lo scontro, da una parte e dall’altra, ha una sua nobiltà, non è il prodotto di capricci o di individualità troppo decisioniste da una parte o troppo rissose dall’altra.
Per gli uni, riallacciandosi all’interpretazione all’inglese che fu data nella prima legislatura repubblicana, quando c’era la maggioranza più omogenea e l’unione personale in De Gasperi di premiership e leadership di partito, il Governo è il comitato direttivo della maggioranza che ha anche il diritto-dovere di mettere in gioco la propria esistenza quando vede il rischio politico di snaturamento di un proprio testo. E’ quello che spiega puntualmente Aldo Moro in due interventi in Aula sulla legge a premio di maggioranza di allora:
quello dell’8 dicembre 1952 pomeriggio, in particolare a pag. 43372
http://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed1028/sed1028.pdf
e quello del 18 genaio proprio sulla questione di fiducia:
1953 http://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed1075/sed1075.pdf
45515
Per gli altri valgono invece tuttora gli argomenti usati soprattutto da Lelio Basso e dagli altri esponenti delle minoranze di destra di sinistra contro Moro: non ci può essere una chiara demarcazione maggioranza/minoranze e il Governo è solo il comitato esecutivo del Parlamento; anche se si delinea una maggioranza ciascuna delle sue componenti ha un diritto di veto per cui l’esecutivo, nel senso più restrittivo del termine, può solo recepire passivamente ad esempio lo stravolgimento di una legge. Il suo programma si riduce a un minimo comun denominatore.
Siamo sempre lì, con la differenza che forse soprattutto nel 2015 uno Stato membro dell’Unione non può adottare quella seconda versione che in questi termini non è praticata da tempo da nessuna grande democrazia europea. E’ un nodo che ci trasciniamo da allora e che va al di là delle singole norme della riforma. Anche a riforma approvata se si affermasse la seconda visione saremmo daccapo perché dentro la lista vincente basterebbero poco meno di 30 deputati che non accettassero la disciplina di gruppo rispetto a una maggioranza che avesse prevalso nel gioco democratico interno a paralizzare il Governo. Per questo il modo con cui si risolve questo conflitto è importante e per questo è anche inevitabile che il conflitto sia forte. E’ su due paradigmi, mi pare.
Tuttavia i sostenitori della seconda tesi, anch’essa nobile e seria (per quanto obsoleta) nella loro propaganda continuano a ripetere una cosa falsa, che col premio di maggioranza si possano conquistare le istituzioni di garanzia (giudici della Corte di estrazione parlamentare, Presidente della Repubblica, componenti laici del Csm), per le quali il quorum è fissato a tre quinti, ossia, dopo la riforma costituzionale, a 438 voti (sono i tre quinti della somma di 630 deputati e 100 senatori). La lista che vince alla Camera avrà 340 voti, ci arriverebbe a pena (salve le sorprese del voto segreto) se prendesse tutto il Senato, cosa palesemente impossibile.
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Caro Stefano, credo che questa tua sintesi sia efficace, e definisca chiaramente la questione politica di fondo. Sto uscendo in questi giorni con un volume dedicato al ruolo di Andreotti sottosegretario nei governi De Gasperi, e il modus operandi generale mi pare fosse effettivamente allora quello ispirato alla brit politics per cui “il Governo è il comitato direttivo della maggioranza”. Vi furono fors’anche forzature sulla procedura di ratifica del referendum monarchiarepubblica (almeno se ne discute in sede storiografica), e comunque anche in quel caso mi pare si rimandasse ultimamente ad un ampio sentimento di “responsabilità” istituzionale per legittimare decisioni per così dire “direttiviste”. Ma come dici tu, si trattava allora di un clima di intesa e unità nazionale postbellica. Credo che oggi il problema sia unicamente quello di contestualizzare o meno il quadro istituzionale attuale rispetto proprio a quello fondativo della nostra Repubblica. Chi sostiene che bisogna invece fare appello al principio per cui “il Governo è solo il comitato esecutivo del Parlamento”, non ritengo voglia riandare coscientemente alle “paludi” della tarda prima Repubblica, ma ritenga onestamente la prassi parlamentare capace di dare una risposta in termini riformisti sulla legge elettorale, e di contro tema il ben noto – almeno a livello mediatico – dirigismo del Premier. Del quale, almeno nella circostanza, credo con questa faccenda si possa palesare più una difficoltà come segretario di partito che come presidente del Consiglio.
Poi sulla legge che uscirà – alla fine quella conta – non so, se ne parla, anche tra noi, da tanto tempo: come storico vedo che passano le stagioni e a momenti interessa più un perimetro istituzionale che garantisca un risultato in termini di stabilità di governo, a tratti prevale l’esigenza di preservare la rappresentanza (fino alle cosiddette democrazie dirette)… ma una vera riforma nel nostro Paese quando ci sarà?