Editoriale di “Mondoperaio” sul referendum
Qualcuno si è mai informato su un quesito referendario leggendo la scheda nella cabina elettorale? Oppure, se preoccupato di seri “pericoli per la democrazia”, ha mai disertato i seggi perché a dicembre fa freddo? E si è mai vista una minoranza lamentarsi per la lunghezza di una campagna elettorale, circostanza che dovrebbe invece favorirla? Questi però sono stati i principali argomenti agitati nelle ultime settimane dai sostenitori del no, se si prescinde dai patetici interventi dei senatori Schifani e Quagliariello: i quali, chi prima e chi poi, hanno fatto a tempo a votare almeno una volta la riforma ora contestata nel corso del suo tortuoso iter parlamentare, che si intrecciava con l’altrettanto tortuoso loro personale iter politico.
Minore eco ha avuto invece il patto con cui è stata stipulata la triplice alleanza fra Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni: fortunatamente per loro, infatti, quasi nessuno si è degnato di commentare il pasticcio che sortirebbe dall’introduzione contestuale di presidenzialismo e mandato imperativo, condita con il solito “federalismo” e con l’inedita apertura ai referendum sui trattati internazionali (e sulle norme fiscali no?). Così come, del resto, è passata sotto silenzio l’intemerata con cui Renato Brunetta – in attesa di protestare violentemente contro il maxi-emendamento con cui puntualmente il governo chiuderà la discussione sulla legge di bilancio – ha replicato a Giorgio Napolitano che empiricamente denunciava l’incipiente debolezza dell’istituzione parlamentare così com’è.
Si dirà che si tratta di propaganda spicciola. Ma non è che le cose vadano meglio se si lasciano i panni del politico di strada e si indossano quelli, reali e curiali, con cui si deve entrare nelle antique corti delli antiqui huomini. Gustavo Zagrebelsky, per esempio, benché si pascesse di quel cibo che solum è suo, e ch’egli nacque per lui, ha fatto una ben magra figura nel confronto televisivo con Matteo Renzi: e non per questioni di immagine, ma di sostanza. E’ sembrato scandalizzato all’idea che un governo possa durare cinque anni di seguito. Ha difeso il diritto all’ostruzionismo delle minoranze perfino nel corso dell’elezione del presidente della Repubblica. Si è speso addirittura a favore del bicameralismo paritario. Ma soprattutto si è ingaglioffito come un qualsiasi politicante nel sostenere (implicitamente) l’irrilevanza dell’architettura istituzionale rispetto alla performance del sistema politico.
Intendiamoci: ciascuno di noi, nelle fumose stanze dei partiti d’ un tempo, se ne è uscito almeno una volta con un “la questione è politica” (specialmente quando non riusciva a venire a capo di una discussione di merito). Ma non si era mai visto un costituzionalista attribuire principalmente alla politique politicienne il compito di rimediare alla farraginosità del procedimento legislativo e di quello amministrativo, e rinunciare a priori ad usare i ferri del mestiere per costringere gli attori politici a comportamenti più responsabili e produttivi.
Che la questione della scarsa governabilità del nostro sistema fosse “politica”, peraltro, fu la convinzione di quanti, negli anni ’80, non raccolsero gli inviti (formulati innanzitutto da questa rivista) a procedere ai necessari aggiornamenti della Costituzione. Nel corso del dibattito sul messaggio di Cossiga alle Camere del 1991 (cioè nella zona Cesarini della prima Repubblica), per esempio, Ciriaco De Mita polemizzava con Amato rispolverando il suo latinorum per ricordare che “ex facto oritur jus”: per cui il problema della governabilità andava risolto “non in termini giuridico-formali, ma in termini politici”. Mentre i postcomunisti sembravano convinti che bastasse la rimozione della conventio ad excludendum per avere una sinistra di governo bell’e pronta.
Sappiamo come andò a finire: democristiani e comunisti non trovarono la quadra, ed ex facto oriebatur Berlusconi. Nel frattempo, però, era toccato alle burocrazie (nel caso a quella giudiziaria) sgombrare il campo e vigilare opportune et importune sulle successive fasi di gioco. Ed alle burocrazie, nella visione di Zagrebelsky, deve continuare a spettare il compito di governare il paese, all’ombra di una Costituzione materiale capace di evolvere juxta propria principia, e non mai per impulso della volontà politica.
Come si vede, la guerra dei mondi che si sta scatenando in vista del referendum trascende largamente la materia del contendere, che nelle pagine che seguono è ben delimitata da Paolo Pombeni. La legge su cui si pronunceranno gli elettori il 4 dicembre non modifica infatti né la forma di governo né la forma di Stato, e non tocca in nessun modo il sistema delle garanzie: per cui giudicarla pericolosa per la democrazia è sicuramente ultroneo, per usare il latinorum dei giuristi.
Tanto rumore per nulla, quindi? No, almeno se non si sottovaluta l’importanza dello start up per avviare un percorso. A Milano c’è un detto, richiamato di recente a proposito della riforma costituzionale, da Movimenti metropolitani, la rivista on line promossa da Franco D’Alfonso: “Piuttost che nient, l’è mei piuttost”, piuttosto che niente è meglio piuttosto. E non solo perché è meglio dare un primo sbocco ad un processo quasi quarantennale, se si vuole evitare che le riforme istituzionali restino oggetto di retoriche propagandistiche, come è avvenuto finora. Anche perché occorre rimettere in asse un sistema politico che oggi è più sgangherato di trent’anni fa.
Quale sia l’asse dovrebbe essere evidente a tutti, se solo si alzasse lo sguardo a valutare gli effettivi pericoli che corre la democrazia nel mondo intero, Europa inclusa. Claudio Cerasa (sul Foglio del 5 ottobre) lo colloca al discrimine fra competizione e concertazione: che oggi è come dire fra sviluppo e stagnazione. Quest’ultima può benissimo essere governata dalle burocrazie, fin che ce n’è per tutti: salvo dar luogo alla protesta populista quando entra in vigore la legge della scarsità. Lo sviluppo, invece, è consustanziale alla democrazia, perché ad essa garantisce la base sociale di consenso.
Da considerazioni non dissimili, del resto, nascevano le tesi che illustravamo su queste colonne quando auspicavamo l’avvento di una democrazia competitiva che fosse al tempo stesso una democrazia governante. E pazienza se poi i paradossi della storia fecero sì che noi venissimo identificati con la consociazione ed i consociati con la “democrazia compiuta”. Peccato però che, un quarto di secolo dopo, quel che resta della politica sembri interessata ad imboccare la stessa scorciatoia verso il nulla che venne imboccata venticinque anni fa.
C’è qualcosa di surreale, infatti, nel dibattito di questi giorni: e se fossimo dei nostalgici della prima Repubblica potremmo perfino esserne soddisfatti, sentendo i Cinque stelle proporre il ritorno al proporzionale e Zagrebelsky tessere le lodi dell’assemblearismo. Ma nostalgici non siamo, se non delle buone idee che mettemmo in campo per tempo, e che altri ebbero il torto di non recepire. Per cui non ci imbarazza il ballottaggio, se serve ad individuare chi, avendo vinto le elezioni, si assume la responsabilità di governare ed è conseguentemente sanzionabile se non lo riesce a fare; né ci disturba una più chiara dialettica fra il governo, la Camera politica e la Camera delle autonomie territoriali, con tutti i conflitti che questo può comportare. A differenza di Zagrebelsky, infatti, sappiamo che i conflitti sono il sale della democrazia, mentre certo “pluralismo” concertativo ne è la tomba.
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