In Diario

INTERVENTO DI GIUSEPPE CALDERISI

DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE N. 1429-B

PRIMA COMMISSIONE PERMANENTE SENATO – LUNEDI’ 27 LUGLIO 2015

 

Il disegno di legge costituzionale per il superamento del bicameralismo paritario e la revisione del titolo V giunge alla terza lettura da parte del Senato dopo l’approvazione della riforma del sistema elettorale. Può essere pertanto opportuno uno sguardo d’insieme sul complesso delle riforme istituzionali (riforma costituzionale ed elettorale, considerando anche la disciplina dei partiti politici) per verificare e mettere a punto il sistema complessivo dei bilanciamenti, dei checks and balances. Ovviamente, “avendo ben chiaro e sapendo osservare il senso del limite” – come ha osservato il presidente Napolitano nel suo mirabile intervento – perché non si può ripartire da zero, fare e “disfare la tela” in questa fase “pre-conclusiva dell’iter della riforma costituzionale”, determinando inevitabilmente e per l’ennesima volta un “imperdonabile nulla di fatto” . Un’osservazione che vale non solo sul piano politico, ma anche su quello regolamentare in quanto, evidentemente, non si può certo disattendere la regola della lettura “doppia conforme” rimettendo in discussione le scelte di fondo sulle quali le due Camere si sono già pronunciate allo stesso modo.

Ricordo, innanzitutto, che l’impianto generale delle riforme istituzionali, oltre ad ispirarsi ai sistemi adottati nelle maggiori democrazie parlamentari europee, corrisponde, in particolare, alle conclusioni espresse a larga maggioranza dalla Commissione di costituzionalisti ed esperti nominata dal governo Letta (quindi due anni fa), sia per quanto riguarda la riforma costituzionale che per quella elettorale.

La riforma costituzionale supera il bicameralismo paritario prevedendo che una sola Camera accordi e revochi la fiducia al governo e sia rappresentativa dell’indirizzo politico sull’asse del continuum corpo elettorale-maggioranza-governo.

La riforma elettorale si basa sullo svolgimento eventuale di un ballottaggio a livello nazionale, con un modello di forma di governo parlamentare “primo-ministeriale” che la Commissione per le riforme scelse di indicare (ripeto, a larga maggioranza) in alternativa al semipresidenzialismo francese, dopo un approfondito e meditato dibattito e grazie all’opera svolta, in particolare, non solo dal Ministro per le riforme Gaetano Quagliariello, ma anche da Luciano Violante (responsabile del forum riforme istituzionali del Pd, in collegamento con la relativa segreteria). A fronte di un sistema politico divenuto almeno tripolare, tale scelta fu compiuta proprio al fine di avere comunque un sistema “decisivo”, in grado di far scaturire dalle elezioni un vincitore ed evitare così di essere costretti a governi di larghe intese, come accaduto dopo le elezioni del febbraio 2013.

l sistema istituzionale complessivo dato dalle due riforme (costituzionale ed elettorale) delinea (cito tra virgolette il capitolo IV, punto 4, della Relazione finale della Commissione) “una forma di governo parlamentare del Primo ministro”, in grado “di far emergere da una sola consultazione degli elettori la maggioranza parlamentare e l’indicazione del Presidente del Consiglio, in modo da incorporare la scelta del leader nella scelta della maggioranza” (espressione coniata, come  noto, dal prof. Leopoldo Elia).

Pertanto, avremmo una legittimazione, non una elezione diretta del Presidente del Consiglio che continuerebbe ad essere comunque nominato dal Presidente della Repubblica e ad essere vincolato ad un rapporto di fiducia con la Camera dei deputati (con un margine di soli 25 seggi rispetto alla maggioranza assoluta, non proprio un sistema  iper-maggioritario). Insomma, si porrebbero le premesse per inclinare la forma di governo italiana verso il c.d. modello Westminster. Non saremmo affatto fuori dallo schema dei governi parlamentari, saremmo invece certamente fuori dalle prassi assembleariste che per tanti anni hanno condizionato la vita delle istituzioni italiane.

E’ vero che, a differenza delle indicazioni della Commissione per le riforme, il premio verrebbe attribuito alla lista e non alla coalizione, ma corre anche l’obbligo di ricordare che, a differenza delle indicazioni della stessa Commissione, la riforma costituzionale in esame non modifica gli articoli della Costituzione riguardanti specificatamente la forma di governo (in particolare gli articoli 88, 92 e 94) e che pertanto non troverebbe ancora attuazione l’ordine del giorno Perassi che chiedeva “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Pertanto avremmo un Presidente del Consiglio che non disporrebbe di poteri formali né di decisione né di proposta per lo scioglimento della Camera politica, neppure in connessione con un meccanismo di sfiducia costruttiva, come in Spagna o in Germania; che non disporrebbe del  potere di revoca o di proposta di revoca dei ministri; oltre a non disporre direttamente dell’ordine del giorno della Camera politica, per la parte prevalente dei tempi, come in altre democrazie parlamentari, né del potere di veto sulle deliberazioni che comportino oneri per la finanza pubblica, come in Inghilterra e in Germania o in Francia.

Per tutte queste ragioni le accuse rivolte a queste riforme istituzionali (“deriva autoritaria”, “democratura”, “impianto iper-maggioritario dell’Italicum”, ecc.) mi sembrano assolutamente prive di fondamento. Siamo di fronte a processi di globalizzazione e a tecnologie che hanno cambiato e stanno cambiando il mondo a velocità prima inimmaginabili e l’Italia deve ancora realizzare le riforme di cui si parla da trenta anni. Non riusciamo ancora a liberarci di un antistorico complesso del tiranno, per alcuni ormai una ossessione, e forse qualche “potere forte” teme l’insediamento di governi legittimati dal voto degli elettori e dotati dei poteri minimi necessari per governare.

Per quanto riguarda la riforma del bicameralismo voglio sottolineare che la scelta di quello “paritario” da parte dei Costituenti (per  ragioni note e già ampiamente ricordate in questa sede) rappresentò una deviazione dai modelli della forma di governo parlamentare. Infatti, la forma di governo parlamentare si basa sul rapporto fiduciario non con ogni Camera del Parlamento, ma solo con quella che esprime direttamente la sovranità popolare (la Camera dei Comuni, il Bundestag, il Congresso dei deputati in Spagna e così via).

Il bicameralismo paritario non solo ha nuociuto alla stabilità e alla efficacia dell’azione di governo, ha nuociuto anche alla autorevolezza e alla centralità  della sede della sovranità popolare, costretta a disperdersi in due rami. Citando Rescigno “l’Assemblea popolare unica è più diretta, immediata, conoscibile, controllabile, più esposta alla critica dell’opinione pubblica”.

La forma di governo parlamentare non può che essere rafforzata, non indebolita, dal superamento dell’anomalo bicameralismo paritario italiano. Non rafforzerebbe invece la funzione parlamentare, ma altererebbe gli equilibri della forma di governo parlamentare l’esistenza di una seconda Camera eletta direttamente con il sistema proporzionale, con compiti assai vaghi di “garanzia”, priva della funzione di indirizzo politico. La seconda Camera deve invece rappresentare le istituzioni territoriali e svolgere, in particolare, la funzione di raccordo tra lo Stato e le Regioni, collegando i legislatori regionali con il legislatore statale, al fine di responsabilizzare il sistema delle autonomie e riportare il contenzioso costituzionale entro limiti fisiologici. Il Senato può senz’altro svolgere anche funzioni di raccordo con l’Unione europea e alcune funzioni di controllo, come specificherò più avanti.

Certamente occorrono limiti al potere di governo, ma tali limiti stanno nel Presidente della Repubblica, nella Corte costituzionale, nel CSM (eletti con quorum che sfuggono alla maggioranza); stanno nella magistratura inquirente del tutto autonoma dal governo (a differenza dell’Inghilterra); stanno nella separazione verticale dei poteri (dalla Ue alle Regioni), nei referendum, soprattutto nel ruolo dell’opposizione che è fondamentale nei sistemi parlamentari (dove esecutivo e legislativo sono fusi dal rapporto di fiducia e non separati come nei sistemi presidenziali puri) e che pertanto occorre potenziare; chi perde deve avere reali poteri di controllo sull’operato del governo, ma “chi perde” sta nella camera politica, non in quella rappresentativa delle istituzioni territoriali.

Di conseguenza c’è l’esigenza di apportare alcuni miglioramenti nel sistema dei bilanciamenti, ma certamente non quello di fare della seconda camera una sorta di contropotere rispetto alla camera politica, con competenze legislative paritarie o “rafforzate” che bloccherebbero la governabilità, secondo un modello che non ha corrispondenti nelle altre democrazie parlamentari.

I più importanti miglioramenti da apportare alla riforma  mi sembrano i seguenti.

  • il rafforzamento del ruolo dell’opposizione. La Camera ha modificato l’articolo 64 Cost. prevedendo che il regolamento della Camera debba disciplinare lo statuto delle opposizioni. Come è stato già prospettato nel dibattito in questa Commissione, occorre dare consistenza a tale previsione. Il core business di un modermo statuto delle opposizioni può essere costituito da una Commissione permanente per il controllo sulla finanza pubblica (con particolare riferimento all’equilibrio tra entrate e spese nonché alla qualità e all’efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni); una commissione priva di poteri legislativi e che pertanto può avere una composizione paritaria tra maggioranza e opposizioni ed essere presieduta da un rappresentante di queste ultime;
  • una norma quadro per inserire in Costituzione (all’articolo 97, modificato dalla Camera) il principio di imparzialità, trasparenza e competenza delle autorità indipendenti, sottraendole all’indirizzo politico di maggioranza attraverso la previsione che i loro componenti siano nominati previo parere parlamentare vincolante espresso a maggioranza qualificata dei tre quinti (oltre ad una disciplina attuativa attraverso un disegno di legge ordinario);
  • per quanto riguarda la legittimazione dei senatori, occorre sottolineare che essi sono eletti in primo luogo consiglieri regionali da parte degli elettori, anche attraverso il voto di preferenza, e sono poi eletti senatori da parte del Consiglio regionale; che essi non abbiano legittimazione mi sembra pertanto privo di fondamento. Pur tuttavia, si può rafforzare il collegamento del nuovo Senato con la sovranità popolare in considerazione delle rilevanti funzioni ad esso già attribuite (in particolare: approvazione in via paritaria con la Camera delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, elezione del Presidente della Repubblica, nomina dei giudici costituzionali). Questo più diretto collegamento con la sovranità popolare deve però preservare il ruolo dei senatori come rappresentanti delle Regioni, cioè come consiglieri regionali in carica, dato che il Senato “rappresenta le istituzioni territoriali” e deve pertanto svolgere il ruolo fondamentale di raccordo tra i legislatori regionali e il legislatore statale. La sede più appropriata per apportare questa modifica è, a mio avviso, l’articolo 122, primo comma, Cost. (modificato dalla Camera), dato che il sistema di elezione dei Consigli regionali è di competenza regionale ma “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”, come afferma, appunto, l’art. 122, primo comma. Quindi non è affatto vero che le Regioni abbiano piena autonomia e non possano essere obbligate a modificare le proprie leggi elettorali. Per non rinviare solo ad una legge ordinaria, si può già intervenire su questo comma della Costituzione per specificare i criteri a cui le Regioni si devono attenere;
  • per quanto riguarda il sistema di elezione del Presidente della Repubblica, possono senz’altro essere valutate le proposte volte a migliorare ulteriormente il testo approvato dalla Camera al fine di assicurare il ruolo fondamentale di garanzia del Presidente della Repubblica (eventualmente ampliando il collegio di elezione e/o prevedendo che i gruppi parlamentari o quote di grandi elettori possano proporre formalmente le relative candidature, non lasciando tale compito alla iniziativa esclusiva delle segreterie dei partiti);
  • [non mi soffermo in questa sede sulla questione, da affrontare con disegno di legge ordinario, della disciplina dei partiti politici; certamente andrebbero regolamentate le elezioni primarie, qualora i partiti decidano di farvi ricorso, e occorrerebbe assicurare trasparenza nella selezione delle candidature e nella stipulazione degli accordi elettorali tra partiti, in particolare per le eventuali “liste di coalizione”];

Vengo ora al procedimento legislativo e all’articolo 70 Cost. sul quale mi preme svolgere alcune considerazioni, in particolare sulle modifiche di impianto apportate dalla Camera rispetto al testo approvato dal Senato in prima lettura. Sull’iter di formazione delle leggi – il cuore della riforma costituzionale – il testo approvato dal Senato (che pure ha avuto l’indubbio e grande merito di approvare in prima lettura la riforma del bicameralismo paritario) era particolarmente complesso e farraginoso, prevedeva una distinzione in molteplici procedimenti legislativi (bicamerale paritario, ordinario, c.d. “rafforzato” con la pronuncia nella votazione finale a maggioranza assoluta da parte della Camera, quello ad hoc per i disegni di legge di bilancio, oltre a quelli per i decreti legge) in relazione alle diverse “materie” oggetto dei disegni di legge. Il criterio delle materie avrebbe riprodotto le patologie del titolo V nel procedimento legislativo, facendo rientrare dalla finestra quel contenzioso costituzionale che la riforma intende cacciare dalla porta; ne sarebbe stata compromessa anche la governabilità, in quanto la Camera dei deputati sarebbe stata costretta a pronunciarsi in via definitiva con la maggioranza assoluta dei componenti su quasi tutte le leggi, anche sui disegni di legge di bilancio, anche a fronte di proposte di modifica del Senato riguardanti “materie” non incluse nel testo approvato in prima lettura dalla Camera.

Il criterio delle “materie” è stato fortemente criticato dalla stragrande maggioranza dei costituzionalisti ed esperti auditi dalla prima Commissione della Camera. Di conseguenza, essa ha semplificato l’iter di formazione delle leggi, eliminando il criterio delle “materie” e adottando quello delle “leggi tipizzate”, previste dalla stessa Costituzione o comunque ben individuate. Un criterio regolato da una norma fondamentale recata dal primo comma, ultimo periodo, dell’articolo 70 (relativo alle leggi bicamerali paritarie): “Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate  a norma del presente comma”. Di conseguenza, il procedimento legislativo da seguire per ogni disegno di legge verrebbe definito sin dalla sua assegnazione, con il conseguente stralcio delle parti alle quali si deve applicare un diverso procedimento e con il conseguente regime di inammissibilità degli emendamenti (al fine di evitare il cambio di procedimento legislativo nel corso dell’esame parlamentare dando luogo ad un pericolosissimo contenzioso).

Questa scelta fondamentale ha anche indotto a prevedere l’applicazione del procedimento ordinario, con la pronuncia in via definitiva a maggioranza semplice da parte della Camera, a tutti i disegni di leggi riguardanti l’attuazione del programma di governo, in particolare ai disegni di legge di bilancio, compreso il coordinamento della finanza pubblica (che deve spettare allo Stato e alla Camera sede del rapporto di fiducia con il Governo, dato che esso ne è responsabile anche di fronte all’Unione europea).

Rispetto alle “materie” per le quali il Senato aveva previsto il procedimento “rafforzato”, la Camera ha preferito ampliare l’elenco delle leggi bicamerali paritarie (laddove era possibile), ma limitare lo stesso procedimento “rafforzato” alle sole leggi che danno attuazione alla c.d. clausola di supremazia statale, escludendo invece da tale procedimento una serie di  “materie di interesse delle Regioni e degli enti locali” di difficile, se non impossibile delimitazione (si pensi, ad esempio, “al governo del territorio”), al fine di evitare ogni altra incertezza nell’iter di formazioni delle leggi.

Appare invece essenziale migliorare il testo del sesto comma dell’articolo 70 Cost. (“I Presidenti delle due Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti”), assegnando ai Presidenti delle Camere un ruolo più ampio nella promozione di forme di leale collaborazione necessarie per assicurare il corretto esercizio delle attività dei due rami del Parlamento (di tutte le attività, non solo quella legislativa), senza i rischi di conflitto e di impasse che il testo approvato dalla Camera comporta.

Per quanto riguarda l’articolo 55 che definisce la natura e le funzioni delle Camere, la Camera dei deputati ha apportato alcune modificazioni al testo approvato dal Senato. Una di essa ha ridotto il ruolo del Senato come sede di raccordo con l’Unione europea, ruolo che a mio avviso può essere recuperato appieno (anche se non in via esclusiva, non potendo comunque sottrarre alla Camera il ruolo di raccordo tra lo Stato e l’Unione europea).

Altre modifiche all’articolo 55 hanno riguardato alcune funzioni di controllo (valutazione delle politiche pubbliche e delle attività delle pubbliche amministrazioni, verifica dell’attuazione delle leggi); ma, a ben vedere, queste modifiche sono solo di forma, non hanno affatto sottratto queste funzioni di controllo al Senato, hanno solo specificato che esse spettano sia alla Camera che al Senato, come previsto dallo stesso testo approvato dal Senato là dove, al comma precedente, afferma che “La Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del governo”. E’ di tutta evidenza che il controllo dell’operato del governo è espressione sintetica che include implicitamente e necessariamente “la valutazione delle politiche pubbliche e delle attività delle pubbliche amministrazioni e la verifica dell’attuazione delle leggi”. Tali funzioni non potrebbero mai essere esercitate dal Senato in via esclusiva perché, oltretutto, ciò andrebbe a privare le opposizioni (che siedono alla Camera) di funzioni essenziali. Ciò premesso, ritengo che il Senato possa senz’altro svolgere queste funzioni e anche altre ulteriori, cioè le funzioni di valutazione della politiche pubbliche concernenti le autonomie territoriali, la verifica delle sentenze della Corte costituzionale ad esse relative e la verifica dell’attuazione delle leggi regionali. Funzioni molto importanti che sarebbero svolte sostanzialmente in via esclusiva.

Infine, per quanto riguarda le modifiche apportate dalla Camera all’articolo 55, quinto comma, e all’articolo 66, a me sembra che la Camera, confermando la scelta operata dal Senato in prima lettura di un’unica fonte di legittimazione per l’elezione dei senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali, vale a dire il Consiglio regionale che elegge sia i senatori-consiglieri regionali sia i senatori-sindaci,  ha specificato che anche il mandato dei senatori-sindaci cessi con la cessazione dell’organo fonte della legittimazione; d’altro canto, dovendo i senatori rappresentare le istituzioni territoriali, ed essere pertanto consiglieri e sindaci in carica, la Camera ha poi precisato all’articolo 66 che il mandato come senatori da parte dei sindaci cessi anche con la cessazione della carica di sindaco (con la conseguente elezione di un altro sindaco per la restante parte del mandato del Consiglio regionale). Si tratta di una scelta che appare coerente e non contraddittoria (al di là che possa o meno essere condivisa).

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