In Diario

LE TRASFORMAZIONI DEL MODELLO WESTMINSTER

E LE DIFFICOLTÀ CRESCENTI

DEL GOVERNO PARLAMENTARE IN EUROPA

Carlo FUSARO*

SOMMARIO: I. Introduzione. II. Tendenze antiche e recenti del governo parlamentare in Italia. III. Tendenze recenti del modello Westminster. IV. Tendenze recenti del governo parlamentare in Germania. V. Gli altri ordinamenti europei. Una Tabella riassuntiva dei diversi contesti parlamentari. VI. Spunti conclusivi.

I. Introduzione

La tesi di questo articolo, dedicato a Lucio Pegoraro[1], è semplice: mi sono persuaso che non solo in Italia ma in tutta Europa il regime parlamentare non se la passa affatto bene. La sua funzionalità, intesa come capacità di conciliare funzione rappresentativa delle assemblee elettive e governabilità (intesa cioè come efficienza del sistema delle decisioni collettive pubbliche ovvero della forma di governo) sembra in fase di progressiva riduzione; le sue prospettive si fanno di anno in anno più incerte fino al punto che mi domando se non si debbano cercare soluzioni nuove, o addirittura alternative, specie se si rifiuta di adottare quelle soluzioni che potrebbero permettergli, forse, di tornare a livelli di rendimento più adeguati (pagando però prezzi che non è detto si sia disposti a pagare e che, comunque, molti – legittimamente – si dichiarano non disposti a pagare[2]).

Questa riflessione trae spunto dalle vicende della forma di governo italiana, che mi è capitato di seguire per molti anni e, recentemente, del Regno Unito (da qui il titolo), ma cerca di tenere anche conto dell’esperienza di altri ordinamenti a governo parlamentare a partire dalla stessa Germania, dalla Spagna, dal Belgio, dalla Grecia e in ultimo almeno dall’Irlanda (e anche dal Portogallo): esperienza confermata, come vedremo, dalla comparazione più generale che tiene conto dei regimi politico-istituzionali di tutti e ventotto gli attuali membri dell’Unione Europea.

II. Tendenze antiche e recenti del governo parlamentare in Italia

Del caso italiano dico solo alcune cose in sintesi, tanto più che sotto i profili che qui interessano me ne sono occupato in modo riassuntivo in un saggio che ripercorre la storia delle riforme istituzionali dal 1948 ad oggi e al quale vorrei rimandare[3]. E’ una vicenda divenuta nel tempo paradigmatica di vere e proprie degenerazioni nel funzionamento del governo parlamentare: non è del resto un caso che il sistema politico-istituzionale sorto nell’immediato dopoguerra, consolidatosi intorno ai risultati delle elezioni del 18 aprile 1948 che lo strutturarono per i 45 anni successivi, sia imploso nei primi anni Novanta dopo aver da un lato accompagnato l’Italia nella sua fase di crescita più tumultuosa (incluso il c.d. boom economico, esauritosi verso la fine degli anni Sessanta del Ventesimo secolo), ma aver – dall’altro – esibito gravi difficoltà di funzionamento a partire proprio da quel torno di tempo: unico grande paese europeo rivelatosi sostanzialmente incapace di reagire con riforme adeguate alle spinte dei movimenti studenteschi, operai e in genere sociali a cavallo fra anni Sessanta e Settanta.

Sintomo di questa inadeguatezza fu per un verso la stabilità sostanziale della classe politica dirigente (che mai conobbe alternanza al potere), per un altro la patologica instabilità dei governi che – fino al 1994 – durarono in media undici mesi (inclusi i periodi di ordinaria amministrazione, a seguito di dimissioni, in attesa di formare il governo successivo). Essi furono sostenuti da maggioranze che arrivarono a comprendere fino a cinque partiti diversi, a ciascuno dei quali (almeno fino al 1989) venne riconosciuto potere di vita e di morte sul governo, mentre in occasione della c.d. solidarietà nazionale (contro il terrorismo brigatista) si vennero a raccogliere intorno al governo Andreotti IV, formato da soli esponenti della Democrazia cristiana, ben sei partiti e 580 deputati su 630 componenti della Camera, pari ad oltre il 92%: un regime senza opposizione[4].

Successivamente alla trasformazione del sistema politico di quella che è stata chiamata Prima Repubblica (espressione giornalistica perché da un punto di vista giuridico la forma di governo italiana del 1948 non è stata ad oggi mai cambiata, e neppure incisa a livello costituzionale: ancorché influenzata da modificazioni della legislazione elettorale e – appunto – da mutamenti del sistema partitico), le cose sono andate un po’ meglio ma solo fino a un certo punto. Dal 1994 al 2015 i governi sono stati tredici: la durata media è quasi raddoppiata, salendo a venti mesi (da undici), ma restando lontana dall’obbiettivo del governo di legislatura. Si sono inoltre registrate continue alternanze: successo del centrodestra nella XII legislatura, del centrosinistra nella XIII, di nuovo del centrodestra nella XIV, del centrosinistra nella XV, del centrodestra nella XVI. Come dire: dal poco (anzi nulla) della fase 1948-1994 al troppo. In ogni caso, ancora nella XIII legislatura (1996-2001) i governi furono ben quattro (in cinque anni); la XV (2006-2008) durò meno di due anni (anche se con un solo governo, il Prodi II). Successivamente la XVI legislatura è stata caratterizzata dalle dimissioni del governo il quale esprimeva più immediatamente il voto popolare (il Berlusconi IV) e dalla formazione di un esecutivo, il governo Monti, guidato da un accademico con qualche esperienza politica[5], formato integralmente da non parlamentari e da un numero impressionante di alti burocratici pubblici, forzatamente sostenuto sia da gran parte della maggioranza uscita dalle elezioni sia da gran parte dell’opposizione (si parlò di governo dei tecnici e anche di governo del presidente poiché il ruolo del presidente Napolitano fu certamente decisivo)[6].

Se si aggiungono le vicende della successiva XVII legislatura, condizionate da un esito elettorale di “impossibile” gestione (a causa del nuovo assetto tripolare del sistema politico nonché dell’irrazionale connubio fra bicameralismo paritario indifferenziato e legislazione elettorale), ancora una volta risolto per l’impegno decisivo del presidente Napolitano, dopo che le forze politiche tutte (tranne il M5s) furono costrette ad invocarne l’inedita rielezione (contro la prassi e contro la sua dichiarata volontà). La soluzione (si fa per dire) fu trovata sulla base di una “innaturale” alleanza fra partito democratico e centro-destra: che del resto durò pochi mesi. Da allora (novembre 2013) il governo del Paese è appeso – in particolare al Senato – a una risicatissima maggioranza, nella quale ogni componente e drappelli di senatori in opposizione al proprio gruppo detengono un potere di ricatto spropositato: per cui il governo si regge solo sul dinamismo e sulla capacità personale del presidente del consiglio Renzi, nonché, ancor prima, sulla naturale ritrosia dei parlamentari ad affrontare elezioni anticipate nei primi anni della legislatura[7] (oltre che – naturalmente – sul corposo, per quanto costituzionalmente illegittimo, a sentir la Corte costituzionale, premio di maggioranza attribuito al Pd alla Camera).

E’ vero che sotto la spinta del presidente Napolitano e del governo alcune importanti riforme sono state realizzate, a partire dalla legge elettorale (l. 6 maggio 2015, n. 52): mentre è suscettibile di approvazione la riforma della parte II Cost., la quale – sotto il profilo che qui ci interessa – contiene almeno l’abolizione di quell’unicum mondiale che è il doppio rapporto fiduciario cui l’esecutivo in Italia è costretto nei confronti non di una ma di due assemblee politiche direttamente elette, da elettorati diversi e con regole elettorali in misura maggiore o minore sempre diverse: nonché, comunque, su schede distinte. Ma resta la costatazione che per decenni il caso italiano è stato l’epitome delle difficoltà di funzionamento del governo parlamentare in contesti nei quali risulta oggettivamente difficile, per non dire impossibile, conciliare virtuosamente, appunto, due delle funzioni essenziali delle assemblee elettive politiche, la funzione di garantire rappresentanza e la funzione di garantire l’efficienza minima dell’esecutivo. Si badi bene: è questa un’esigenza che si presenta come irrinunciabile e non aggirabile proprio nelle forme di governo parlamentari; o, comunque, in quelle, anche se classificate come semipresidenziali, nelle quali la sopravvivenza in carica dell’esecutivo è affidata alla disponibilità della maggioranza dell’assemblea, alla quale è appunto legato dal c.d. rapporto fiduciario, a lasciarlo operare, senza determinarne le dimissioni[8].

Le cause della relativa inefficienza del governo parlamentare in Italia sono state ampiamente indagate e non devono essere qui ridiscusse. Sono cause giuridico-costituzionali, culturali, politiche: ed è impensabile risolvere il problema agendo solo sulle prime. Ma certo dotare l’ordinamento di strumenti adeguati a quella che, da Mirkine-Guetzevich in poi, chiamiamo “razionalizzazione” della forma di governo, può migliorare la situazione e porre le basi per la progressiva trasformazione (inevitabilmente lenta) della cultura politica prevalente: questa cultura politica si è formata essenzialmente nel lungo cinquantennio della prima fase repubblicana ed ha salde radici nella storia italiana. Il che concorre a spiegare perché il tentativo di riformare le istituzioni è in corso in Italia da fin troppo tempo ed ha conosciuto, fino ad oggi, successi alterni e molte sconfitte.

III. Tendenze recenti del modello Westminster

Se queste sono le condizioni ben conosciute dell’ordinamento italiano, che hanno acquistato maggior rilievo, nel corso della grande crisi finanziaria e poi economica degli anni dal 2007 al 2014 (basti pensare che ogni paese è ora periodicamente valutato, dalle agenzie di rating, ai fini del giudizio sulla sostenibilità del debito e della qualità del suo credito non solo in base a dati economici, ma anche in base alla presunta capacità del suo sistema politico-istituzionale di produrre nei tempi necessari le decisioni utili[9]), una più ampia riflessione è suggerita dalle vicende di altri ordinamenti, a partire dal Regno Unito, l’ordinamento nel quale il parlamentarismo si è inizialmente affermato e dove tuttora funziona in assenza di costituzione scritta: dunque sulla base di una serie di solidissime convenzioni della costituzione e – recentemente – di alcune norme di legge ordinaria, nel quadro di quella che è stata chiamata nel suo complesso una political constitution[10].

Anche quelle britanniche sono vicende note. Le elezioni della Camera dei comuni del 2010 produssero il c.d. hung Parliament: si verificò cioè uno dei rari casi (il secondo dalla seconda guerra mondiale) in cui nessun partito conseguì la maggioranza assoluta dei seggi. I conservatori e i liberaldemocratici conclusero allora un patto di coalizione dopo trattative durate una decina di giorni, cercando di definire con grande dettaglio le cose da fare nonché – soprattutto – quelle sulle quali i due partiti si riconoscevano il diritto di assumere atteggiamenti parlamentari differenziati o di dare ai propri MP libertà di voto. Il presupposto del parlamentarismo modello Westminster non è solo di essere in genere fondato sul governo di un solo partito, ma che questo governo e il suo primo ministro sono davvero il comitato direttivo dell’assemblea politica, e in particolare del proprio gruppo parlamentare, per cui non sono di norma ammessi (al più tollerati) voti individuali in difformità rispetto alle indicazioni del Governo (tanto meno è consentito organizzare il dissenso interno alla maggioranza). Sicché era questa una novità importante[11]. Nel quinquennio successivo l’esperienza della coalizione ha comportato, non a caso, l’emergere di comportamenti e problematiche (certo filtrate da una cultura politica figlia di una storia ben diversa, rispetto, a quella italiana) simili a quelle conosciute dal sistema politico-istituzionale italiano: frutto proprio del momentaneo tramonto del governo di un partito solo. Se si leggono i manuali di diritto costituzionale del Regno Unito si vede che descrivono come un’eccezione la vicenda del governo laborista di James Callaghan, succeduto ad Harold Wilson, che perse la maggioranza ai Comuni: un’eccezione perché, appunto, «in normal circumstances… the House of Commons is enmeshed with and supports the government of the day» e perché «ordinarily a government… can rely on party cohesion and discipline to assure it of the confidence of the House…»[12]. Ebbene non è stato più questo il caso dal 2010 al 2015: lo hanno osservato numerosi osservatori da Armel Le Divellec in Francia a Giulia Caravale in Italia[13]: tanto più dopo l’approvazione della legge sul Fixed-term Parliaments Act del 2011. Scriveva Caravale: «il multi party system… ha avuto l’effetto di alterare il funzionamento del tradizionale modello Westminster…».

Alla vigilia delle elezioni del 2015 sembrava pressoché sicuro che il Regno Unito avrebbe conosciuto ancora un’altra legislatura di coalizione, e c’era chi vi si preparava: con preoccupazione una parte dell’establishment (si rileggano i commenti e gli articoli dell’Economist troppi per essere citati); con qualche aspettativa, e pronti a negoziare da posizioni sempre più rigide, i liberaldemocratici. Ho trovato istruttivo un saggio pubblicato nel febbraio 2015 dall’Institute for Government di Peter Riddel, autore un ministro LibDem del governo Cameron (in quel momento non più in carica): una riflessione sull’esperienza di coalizione maturata dal punto di vista del partito cadetto. Riporto solo la conclusione: «… the greatest lesson we Liberal Democrats must learn is… ‘just say no’… It is difficult for the smaller party in a coalition to make the larger one do things it doesn’t want to do. But it should be relatively simple to stop our political partners doing things we don’t want them to do. They need our votes…»[14]: come non pensare alla storia politica italiana, alle delizie del negoziato permanente fra partiti tutti parimenti “sovrani” perché tutti necessari alla maggioranza anche se titolari solo di un pugno di voti, resi però indispensabili dall’esigenza di garantire una maggioranza parlamentare?

Ora è vero che le elezioni del 7 maggio 2015 hanno rilanciato il governo di un solo partito, grazie al successo inatteso dei conservatori di Cameron, ma alcuni primissimi anche autorevoli commenti all’insegna del “back to normal”, già a qualche mese di distanza hanno trovato smentita: così non è, o almeno, non è che in parte.

Prima di tutto resta in vigore la legge simbolo di quella fase costituzionale, il già evocato Fixed-term Parliaments Act 2011 (si noti che anche nel discorso della Corona la Regina, cioè il Governo, si son guardati bene dall’anche solo evocare l’ipotesi di una revoca di quella legge)[15]; in secondo luogo, è facile prevedere che, anche per il futuro prossimo, governi di un solo partito saranno possibili, ma solo in circostanze particolari e solo con pochi seggi di maggioranza, specie – paradossalmente – se l’ipotesi dell’indipendenza scozzese non viene rilanciata; per di più prevalentemente a vantaggio solo di uno dei due partiti maggiori, quello attualmente al governo. Infatti, la Scozia nell’Unione significa, per il momento, una cinquantina di seggi sicuri per il “partito di raccolta” (alla maniera della Svp in provincia di Bolzano), cioè il monopolio indipendentista su circa l’8-9% dei seggi dei Comuni e la neutralizzazione o quasi di essi: costringendo conservatori e laboristi a disputarsi solo gli altri, il che rende strutturalmente difficile l’affermarsi della maggioranza di un solo partito, e rende in ogni caso probabile che anche laddove ciò accada, si tratti di una maggioranza risicata, come l’attuale (che è di 12 seggi)[16]. Questo contesto politico fa presagire, a istituzioni politiche invariate, il consolidarsi del ridimensionamento della posizione egemone del primo ministro e un’accentuata autonomia per i c.d.backbenchers che fra il 2010 e il 2015 hanno assunto un ruolo e un’influenza crescenti. «La lieve maggioranza di seggi di cui gode il partito conservatore unita dalla consapevolezza acquisita nella passata legislatura dai backbenchers potrebbero non redere facile il lavoro del Primo ministro…»[17]. Non per caso, l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott nello spiegare ai lettori le ragioni di alcune dichiarazioni difformi rispetto a quelle di David Cameron pronunciate dalla sua ministra dell’interno Theresa May sulla delicatissima materia dell’immigrazione (un cosa un tempo inimmaginabile ed espressamente vietata da alcune norme regolamentari interne), richiama quella risicata maggioranza: «la signora May e gli euroscettici come lei, vogliono ricordare a Cameron che esistono, e che il loro sostegno non può esser dato per scontato…». Come risultato, conclude Emmott, «un Primo ministro che governa quella che ad oggi è la più forte economia dell’UE in termini di crescita economica e basso tasso di disoccupazione, sta entrando nella stagione politica autunnale, mostrandosi debole e incerto…»[18].

E non basta. Si pensi alle vicende innescate dalla rinegoziazione condotta dal Primo ministro Cameron con i partner dell’Unione Europea e alla successiva, preannunciata e prevista convocazione del referendum popolare sull’accettazione di quel pacchetto di condizioni speciali ottenute a Bruxelles che, secondo il Governo di Sua Maestà, giustificherebbe la permanenza del Regno Unito nell’Unione o sull’uscita, al contrario, dalla partnership europea (c.d. Brexit). Il referendum si tiene il 23 giugno 2016 e quando questo articolo sarà pubblicato l’esito sarà già noto. Quel che merita riportare però, sotto i profili costituzionali in tema di forma di governo, è che Cameron è stato costretto a liberare i suoi ministri dal vincolo, previsto da precise norme giuridiche che regolano i rapporti endogovernativi, di rispetto dell’indirizzo politico del gabinetto[19]. In effetti sette componenti del gabinetto su trenta non solo sono schierati contro, ma vanno facendo campagna referendaria contro quella che può essere definita la principale scelta strategica dell’esecutivo del quale continuano a far parte, formato all’indomani delle elezioni del maggio 2015[20]. Non mi pare cosa da poco.

IV. Tendenze recenti del governo parlamentare in Germania

Anche la magna Germania, nonostante l’apparenza e molti luoghi comuni, mostra una forma di governo parlamentare che a me pare in (relativo) affanno. Non mi riferisco ora alle vicende di più stretta attualità (vicenda greca, politica dell’immigrazione e gestione delle frontiere, c.d. dieselgate). Mi riferisco al fatto che da anni la Germania è un grande paese senza opposizione: al punto che un giovane ma già prestigioso filosofo si permette di dire in un’intervista che «la Germania è oggi come Cuba, con un partito unico, cristiano democratico e socialdemocratico, al governo»[21].

Si può discutere da cosa quest’affanno sia stato determinato.

Vi hanno, credo, concorso una molteplicità di fattori: il primo consiste certamente, come nel Regno Unito, in una trasformazione del sistema partitico la quale è a sua volta la conseguenza naturale, a condizioni istituzionali invariate (nel caso tedesco, lo dirò subito, a condizioni istituzionali peggiorate) di trasformazioni della società (non solo in quel paese, naturalmente) che si devono considerare di lunga durata. Soccorre periodicamente – certo – in questo ordinamento l’applicazione di una clausola di sbarramento di discreta consistenza (tanto più rilevante oggi nel contesto mutato, appunto): col 5% da superare, la frammentazione del Bundestagè tuttora assai contenuta. In ogni caso il sistema partitico ha visto i suoi attori moltiplicarsi: quelli parlamentari sono attualmente quattro, con almeno due o tre altri, in questa legislatura, fuori dal Parlamento: la tradizionale Fdp (liberali) e la nuova AfD (alternativa antieuropeista ed anti-immigrazione). Resta il fatto che attualmente governa una grande coalizione che mette insieme le due forze politiche che si sono tradizionalmente alternate al governo della Repubblica federale, Cdu/Csu e Svp: le quali, infatti, a livello europeo, appartengono a partiti diversi. Il II governo Merkl conta così su una maggioranza che sfiora l’80% dei seggi. Naturalmente anche la Germania non meno dei paesi con i quali può raffrontarsi è una poliarchia; inoltre la cultura politica del Paese è non adversariale come poche (se mi si passa il brutto ma efficace anglicismo): nondimeno a me non pare che, con un’opposizione parlamentare ridotta ai minimi termini (20%), anche lasciando da parte le battute dei maîtres á penser, questa sia una condizione ottimale di funzionamento del governo parlamentare.

A quest’esito ha attivamente e reiteratamente concorso ilBundesverfassungsgericht grazie alla sua interpretazione del principio proporzionale nella Costituzione tedesca: solo ed esclusivamente in funzione della governabilità la clausola di sbarramento e altre caratteristiche del sistema elettorale che alterino un rigoroso proporzionalismo in uscita (trasformazione dei voti in seggi) sarebbero da considerarsi costituzionalmente legittime. Su queste basi sono state abolite le clausole di sbarramento a livello locale (là dove la governabilità è assicurata dall’elezione diretta del borgomastro) e alle elezioni per il Parlamento europeo (perché la peculiare forma di governo dell’Ue non avrebbe le caratteristiche proprie del parlamentarismo): in quanto nessuna alterazione della proporzionalità si giustificherebbe[22]. Mentre per le elezioni del Bundestag il BVG ha imposto l’abolizione del modesto premio che derivava dalla formula elettorale prevista, nel caso in cui il partito vittorioso avesse conseguito un numero di mandati con il primo voto (nei collegi uninominali) tale da imporre mandati aggiuntivi. Ben due volte il Parlamento è stato costretto a intervenire in materia, in ultimo dando luogo a una formula che assicura la perfetta proporzionalità. A me pare che scelte del genere (da parte dei giudici costituzionali) scontino una radicale incomprensione della logica stessa del governo parlamentare e si coniughino con un’analoga incomprensione dell’evoluzione della società in Europa. In ultima analisi sono destinate a creare seri guai.

E’ accaduto così nel 2014 che una delle maggiori vittorie elettorali del Dopoguerra si sia comunque tradotta per la Cdu/Csu e per la signora Merkl nell’impossibilità di contare su una maggioranza in seggi, costringendola a negoziare con il partito alternativo (la socialdemocrazia)[23]. IlKoalitionsvertrag (patto di coalizione), firmato dopo trattative durate due mesi, è un documento di quasi 200 pagine che fissa anche nei minimi dettagli il programma legislativo del nuovo Governo, con norme severissime che impediscono o dovrebbero impedire qualsiasi tentativo di inizitiva autonoma o di dissenso da parte dei gruppi parlamentari sostenitori dell’esecutivo (perfino, si legge specificato, per le materia non disciplinate dal patto). Dunque, fra prassi comportamentali e cultura politica fortemente collaborativa, il governo di Grosse Koalition governa ragionevolmente bene (problema del controllo a parte), anche se talora si verificano imprevisti contrasti (penso alla posizione del vicecancelliere Gabriel in relazione alle vicende greche, per esempio). Ma questa efficace governabilità ha più a che altro a fare con caratteristiche culturali della nazione tedesca: sono prestazioni che risultano garantite nonostante gli assetti ordinamentali, e nessuno può prevedere quanto ciò potrà durare e soprattutto priva l’elettorato di un reale potere sanzionatorio nei confronti di chi ha governato (alle successive elezioni). Inoltre se risultassero suffragate dall’esperienza le ipotesi avanzate da Stefano Ceccanti[24] (e sintomi precisi proprio in Germania ci sono: dove – almeno al momento – neppure ci si immagina di come il secondo maggior partito, la Svp, possa mai tornare alla guida del paese[25]) tutto fa ritenere che si porrà anche in Germania il vero e proprio “dilemma del prigioniero” del partner minore delle coalizioni consociative rese obbligate dalle caratteristiche della legislazione elettorale e del sistema partitico. In altre parole solo una solida cultura politico-istituzionale e una prassi che fa sempre prevalere la disciplina collaborativa rispetto alla competizione rissosa di culture politiche diverse (si pensi solo a quella italiana di cui le Camere della XVII legislatura sono uno sconfortante esempio) ha sin qui evitato alla Germania di dover assaporare i limiti dell’ingovernabilità all’italiana. Ma anche in Germania non è detto che quella cultura collaborativa e razionale duri nel tempo: penso agli Stati Uniti (che qui non ci interessano direttamente data la diversa forma di governo), nei quali da circa un ventennio e con sviluppi crescenti si è affermata un’interpretazione sempre più ferocemente adversarial della competizione politica quale sarebbe stata prima del tutto inimmaginabile[26].

V. Gli altri ordinamenti europei.

Una tabella riassuntiva dei diversi contesti parlamentari

Difficoltà analoghe, e forse più gravi, si sono manifestate in Spagna: l’affermarsi di forze politiche nuove come Podemos e come Ciudadanos, in sé un fenomeno positivo (una democrazia con insormontabili barriere all’ingresso di nuovi attori non può considerarsi ottimale), ha creato – perfino con un sistema elettorale proporzionale fortemente selettivo quale quello spagnolo – una situazione di stallo se non di ingovernabilità. A distanza di tre mesi dal voto del 20 dicembre 2015 resta al momento in cui scrivo incerto se un governo potrà nascere oppure se il Re sarà costretto a sciogliere il Congresso dei deputati nella speranza che gli elettori restituiscano una composizione di esso meglio suscettibile di favorire la costruzione parlamentare di una maggioranza: fermo restando che il governo di (un) partito che ha caratterizzato i primi 40 anni della vicenda costituzionale spagnola postfranchista è, per il momento, comunque ipotesi da accantonare, salve imprevedibili sorprese: se l’Italia del 2013 si è rivelata tripolare, la Spagna del 2015-6 si è rivelata addirittura quadripolare. D’altra parte la prassi costante sembra rendere impossibile il coalizzarsi delle due maggiori forze tradizionali (Partito popolare e Partito socialista): le quali puntano piuttosto a convincere gli elettori eventualmente richiamati alle urne a dare i seggi sufficienti a governare a una o all’altra delle possibili coalizioni che includano o il terzo o il quarto partito (Podemos oCiudadanos, appunto). Per nulla dire del sostegno potenzialmente necessario di partiti regionalisti: e degli intrecci con le tendenze indipendentiste così forti in Catalogna (a sua volta preda di una governabilità a dir poco faticosissima). In ogni caso è agevole prevedere che di non facili coalizioni si tratterà: tutte potenzialmente suscettibili di declinarsi secondo il modello italiano tradizionale nelle sue versioni più instabili.

Di altri paesi si potrebbe pure discorrere: in numerosi di essi le coalizioni si sono fatte via via più difficili, via via più frequenti anche laddove non erano la prassi, spesso più litigiose, talora fra partiti teoricamente alternativi. La lista sarebbe lunga (dal Nord al Sud: dalla Svezia alla Grecia, passando per la Finlandia, la Danimarca, l’Olanda, il Belgio – dove il doppio sistema politico fiammingo e vallone complica di per sé le cose: da qui il record del II° governo Leterme, rimasto dimissionario in carica per gli affari correnti per quasi due anni[27], l’Austria, ora l’Irlanda e il Portogallo).

Soffermandoci solo sui due casi più recenti e al di là delle cause immediate (la profonda insoddisfazione di parti significative dei rispettivi elettorati per le politiche di austerità, pur coronate da successo e in parte anche da vigorosa ripresa economica), in Irlanda il voto del 26 febbraio 2016 a restituito una Camera (Dàil) nella quale la maggioranza uscente Fine Gael-Labour ha perso la bellezza di 56 seggi finiti vuoi a due partiti di opposizione, vuoi a una pletora di indipendenti di ogni orientamento: sicché anche qui, a distanza di un mese dal voto, l’unica cosa certa è che il governo uscente in carica per gli affari correnti è destinato a durare ancora “molte settimane”. In Portogallo, la cui forma di governo è peraltro semipresidenziale (anche se coniugata in senso parlamentaristico da diversi decenni ormai, superata la transizione con il consolidamento del sistema post 1976), le elezioni del 4 ottobre 2015 hanno portato dopo due mesi alla formazione di un governo minoritario «sostenuto da un’impalcatura politica instabile» che dovrà affrontare complicati equilibrismi, fondato com’è su appoggi esterni, cioè di gruppi minori che non ne fanno parte; esso si trova per di più a “coabitare” con un presidente di più fresca legittimazione popolare (eletto il 24 gennaio 2016) appartenente al partito socialdemocratico (che è un partito di centro destra), primo partito del paese.

QUI TABELLA (v. file a parte)

Esaminiamo adesso la tabella costruita al fine di raccogliere ed esporre sinteticamente dati utili all’analisi che andiamo conducendo. Essa riguarda tutte le assemblee elette direttamente (camere politiche) nei ventotto paesi membri dell’Unione. Sono ventinove, con tre eccezioni: Cipro, la cui forma di governo deve essere considerata presidenziale; la Romania le cui due Camere, entrambe elette direttamente, danno e tolgono la fiducia in seduta comune; e l’Italia che – come ben sappiamo – al momento può vantare non una, ma due camere del genere. Per questo le assemblee parlamentari titolari in una misura o nell’altro del rapporto fiduciario nei confronti dell’esecutivo possono essere considerate, in tutto, ventotto[28].

Va aggiunto che quasi la metà, tredici, degli ordinamenti considerati prevedono una qualche forma di semipresidenzialismo: o, diciamo più esattamente, prevedono insieme rapporto fiduciario governo-assemblea ed elezione popolare diretta del presidente della Repubblica. Questi tredici presidenti, peraltro, sono titolari di attribuzioni molto differenziate l’uno rispetto all’altro. Si va dal modello della Francia nel quale il presidente è – pur in un quadro dualista – il vero titolare del potere di governo (salvo i casi ormai residuali e del resto non più verificatisi da un quindicennio di c.d. coabitazione), a paesi come la Finlandia o la Slovenia, nei quali la figura presidenziale non ha di diritto né ha di fatto poteri maggiori di quelli dei capi di Stato degli ordinamenti classicamente parlamentari. Questi ultimi sono, dunque, quattordici, dei quali sei con capo dello Stato ereditario; gli altri otto hanno capo di Stato indirettamente rappresentativo, eletto in forme svariate, quasi sempre con il prevalente concorso del Parlamento (in Germania metà dei grandi elettori è di espressione dei Länder).

La tabella offre una serie di dati, a partire dalla consistenza e dal numero dei gruppi parlamentari presenti nelle ventinove assemblee: Malta a parte, dove i gruppi sono solo due, si va dai quattro gruppi di Germania, Slovacchia e Cipro ai quattordici della Camera italiana (componenti del Misto incluse: senza quest’ultime, i gruppi sono solo dieci), passando per i dieci del Senato Italia, i nove di Olanda, Belgio, Irlanda e Danimarca; otto ne contano Regno Unito, Spagna, Svezia, Bulgaria, Finlandia e Croazia; sette Portogallo, Grecia, Cechia, Austria e Slovenia; sei Francia, Romania, Lituania, Lettonia, Estonia, Lussemburgo; cinque, infine, Polonia e Ungheria. La media complessiva, Cipro a parte è di sette gruppi per assemblea (ma dieci ne hanno da otto in su). Inoltre in ben tredici assemblee, oltre ai gruppi regolarmente costituiti, si devono annoverare o gruppi misti (come in Italia) oppure un numero rilevante di rappresentanti non affiliati (dal 3% in su; non affiliati sotto il 3% si registrano in altre sette assemblee: per un totale di venti su ventotto; l’Irlanda ha addirittura 23 indipendenti su 158 componenti del Dàil).

Le assemblee nelle quali un gruppo detiene da solo la maggioranza assoluta sono solo sei sui ventisette paesi con assemblee titolari di rapporto fiduciario: Regno Unito (51.1%), Francia (51.1%), Polonia (51.1%), Ungheria (57.6%), Slovacchia (55.3%) e Malta (57.1%): Francia e Slovacchia sono però semipresidenziali. Ciò significa che in ventun ordinamenti su ventisette (lasciamo sempre fuori Cipro), il governo dipende in misura maggiore o minore da coalizioni di due o più partiti. In alcuni casi anche la somma dei seggi del primo e del secondo gruppo non è sufficiente a garantire la maggioranza: in Belgio (totale 37.3%); Cechia (48.5%); Danimarca (47%); Finlandia (43.5%); Lituania (50%); Lettonia (47%). Ma questo calcolo va piuttosto fatto considerando il terzo o quarto partito, volendo ipotizzare che il secondo e/o il terzo costituiscano partiti alternativi rispetto a quello che ottiene più voti e non sempre è ilvincitore politico delle elezioni, (diversamente dalla Germania delle lezioni del 2013). I paesi nei quali la somma del primo e del terzo gruppo non garantisce la maggioranza sono molti: ovviamente quelli appena citati, oltre a Italia (sia Camera sia Senato), Olanda, Portogallo, Svezia, Austria, Bulgaria, Danimarca, Irlanda, Croazia, Estonia. In ben diciassette assemblee su ventotto la coalizione di maggioranza deve fondarsi su almeno tre partiti, salvo la formazione di c.d. grandi coalizioni, formate di due soli partiti con governi fondati su partiti che, in sede elettorale, si erano presentati come alternativi.

Quanto alla stabilità, la tabella propone una pluralità di dati: l’indice di frequenza delle elezioni (rispetto alla durata teorica costituzionalmente prevista); il numero dei governi succedutisi nel periodo considerato (1990-2015, venticinque anni); e quindi la durata media, ordinamento per ordinamento, di essi. Inoltre vi sono alcuni dati sui mandati presidenziali (per i paesi nei quali il presidente è eletto direttamente).

Parto dall’indice di frequenza delle elezioni (cioè dal rapporto fra elezioni che si sono tenute ed elezioni che si sarebbero dovute tenere: 1.00 equivale a nessuno scioglimeno anticipato). Ottengono 1.0 Francia, Irlanda, Croazia, Lituania, Slovenia e Lussemburgo (solo Lussemburgo è a regime parlamentare classico). Esibiscono la maggior frequenza di scioglimenti anticipati la Grecia (1.70), l’Austria (1.60) e la Lettonia (1.50). A 1.40 troviamo l’Italia. A 1.30 Belgio, Bulgaria, Danimarca. Ottengono 1.20 Germania, Regno Unito, Spagna, Polonia, Romania, Olanda, Cechia, Portogallo, Ungheria, Svezia, Finlandia, Slovacchia, Estonia e Malta (la metà degli Stati UE).

Numero e durata dei governi. Occorre qui scontare la diversa durata costituzionalmente prevista delle legislature che è di quattro o cinque anni: essa influisce ovviamente in vario modo sul numero e durata dei governi (che dipendono anche da altri aspetti della disciplina costituzionale dei rapporti governo-Parlamento qui non considerati). La Lettonia ha avuto, in venticinque anni, ben diciannove governi con una durata media di 1.3 anni; il Regno Unito solo cinque con durata media ovviamente di cinque anni. Dieci governi o meno (dunque con durata media da due anni e mezzo a poco meno di cinque) hanno avuto: Germania, Spagna, Olanda, Portogallo, Svezia, Austria, Finlandia, Slovacchia, Irlanda, Malta. Dieci paesi di cui cinque ad elezione diretta del capo dello Stato. L’Italia con 17 governi ha avuto una durata media di essi pari a 1.5 (solo un paese ha fatto “peggio”: la già citata Lettonia, mentre hanno una durata media altrettanto breve Polonia e Romania). Se si considerano i paesi ad alta instabilità dei governi (durata sotto i due anni) si nota che tranne Italia, Lettonia ed Estonia sono tutti semipresidenziali (evidentemente il fattore di stabilità viene trovato nel presidente eletto): vi figura non a caso anche la Francia. In effetti considerando i regimi semipresidenziali, si nota un elevato grado di continuità e stabilità delle figure dei capi di Stato: nei 25 anni considerati i tredici paesi che eleggono direttamente il presidente hanno avuto, ciascuno, in media, solo quattro presidenti con una durata media in carica di oltre sei anni; questo perché diversi presidenti sono stati eletti per più di un mandato (la durata prevalente è di cinque anni).

Non pare esservi una correlazione significativa fra stabilità dei governi e forma di governo parlamentare o semipresidenziale: la media rispettiva è di 10.5 e 12 governi nel venticinquennio. La durata media generale dei ventisette ordinamenti considerati è di ventisette mesi; la durata dei governi nei quattordici regimi parlamentari è di ventotto mesi; la media dei regimi semipresidenziali è di ventisei mesi. Questa affermazione è confermata se si procede ad un diverso raffronto: considerati i quattordici ordinamenti a maggiore instabilità (da 11 a 19 governi nei 25 anni, durata da 15 mesi a 27 mesi), sette sono semipresidenziali e sette sono parlamentari.

C’è però correlazione precisa con il livello di dispersione della rappresentanza: non tanto il numero dei gruppi quanto la dimensione del primo gruppo rappresentato, nonché la somma del primo e del secondo e/o del terzi. In ben otto paesi (sui quattordici) il gruppo più grande dell’assemblea non si avvicina al 40% dei seggi e in alcuni casi non supera il 30% (Belgio, Danimarca, Lituania e Lettonia). In ben sei la somma dei primi due gruppi rappresentati non supera o tocca appena il 50% (Italia Senato, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Lituania, Lettonia).

VI. Spunti conclusivi

Una prima conclusione è che – con tutta evidenza – il c.d. modello Westminister (inteso come governo di un solo partito guidato dal primo ministro grazie al controllo del gruppo parlamentare di maggioranza) appare oggi largamente recessivo nelle democrazie parlamentari europee, nelle quali, per definizione, resta indispensabile all’esecutivo godere del sostegno della maggioranza parlamentare (o almeno, per dirla all’italiana, godere della non sfiducia del maggior numero di parlamentari nella camera politica): per perseguire il proprio programma, ma anche per la stessa permanenza in carica. Ad eccezione di pochi casi (Regno Unito, Polonia, Slovacchia, Malta), in alcuni dei quali oltrettutto è stato o potrebbe essere rimesso in discussione, esso è soppiantato da assetti fondati su coalizioni di più partiti, a volte fisiologiche a volte obbligate; al riguardo abbiamo anzi mostrato che in diversi paesi deve trattarsi di coalizioni costituite da almeno tre gruppi parlamentari (Italia, Spagna, Belgio, Cechia, Danimarca, Irlanda, Finlandia, Lettonia), ovvero di coalizioni fra forze politiche presentatesi come contrapposte davanti agli elettori (Germania, Spagna, Italia fra queste). In qualche caso si fa ricorso a governi di minoranza (Svezia). Un discorso simile si può però fare anche per i pur diversi regimi semipresidenziali, nei quali comunque il rapporto fiduciario sopravvive: si pensi al Portogallo post 2015. Solo in Francia, al di là della decisiva funzione unificante dell’indirizzo assicurata dal presidente della Repubblica, si ha governo di un partito solo.

Se non che, i governi di coalizione, tanto più i governi di ampia coalizione e ancor di più i governi di c.d. grande coalizione rendono il funzionamento dei regimi parlamentari spesso assai insoddisfacente, e difficilmente sostenibile tanto più nel medio e lungo termine. Questi discorso non vale, appunto, là dove il regime parlamentare si è trasformato in parlamentarismo a tendenza presidenziale, almeno limitatamente ai casi in cui il capo dello Stato, è in grado di porsi come elemento di stabilizzazione, omogeneizzazione e continuità dell’indirizzo politico. Vale, al contrario, per quei regimi semipresidenziali nei quali il presidente non gode di attribuzioni di diritto o di fatto che gli permettano di assolvere a quella funzione.

Fra i difetti dei governi di coalizione a me pare di poter elencare: (i) frequente disomogeneità delle politiche di governo, accentuata in particolare dalla difficile posizione dei partiti cadetti; (ii) lentezza decisionale e tendenza alla continua negoziazione fra i partiti alleati; (iii) influenza marginale eccessiva dei partiti comunque indispensabili alla formazione della maggioranza, al di là dei consensi da essi effettivamente raccolti; (iv) difficoltà ad attivare efficacemente il circuito della responsabilità politica davanti al corpo elettorale; (v) limitata decisività del voto; (vi) eccessivo potenziale ridimensionamento della funzione oppositiva (limitatamente alle c.d. grandi coalizioni). Alcuni di questi difetti sono stati aggravati, in anni recenti, da alcune caratteristiche assunte dai sistemi politici democratici: modalità di rappresentazione della lotta politica utilizzate dai mezzi di comunicazione di massa; radicata sfiducia di ampi settori dell’elettorato nei confronti delle forze politiche; divario crescente fra aspettative dell’opinione pubblica e potenzialità reali delle istituzioni pubbliche; diffondersi di concezioni adversariali della lotta politica che tendono ad accentuare il conflitto e a demonizzare il compromesso fra interessi diversi considerandolo deteriore per definizione; affermarsi di forze politiche che si usa definire approssimativamente come “populiste”, il più delle volte portatrici di parole d’ordine semplificanti e sistematicamente negatrici della complessità di molte delle principali problematiche delle società contemporanee; crisi generale dell’istituto partito politico e – in questo quadro – crescente attenuazione della disciplina di gruppo all’interno delle assemblee rappresentative. Tutto ciò su uno sfondo che vede trasformazioni delle nostre società che da un lato rendono la politica oggettivamente meno rilevante (ma non esonerata dal peso delle aspettative) dall’altra sembrano dar vita a corpi sociali assai più segmentati rispetto al passato e nei quali le fluttuazioni dei diversi strati della pubblica opinione si fanno sempre più ampie e frequenti.

Quanto in particolare all’attenuazione della disciplina di partito e di gruppo nelle assemblee essa è causa non marginale dell’incapacità degli esecutivi di perseguire il proprio programma. Ad eccezione della Costituzione portoghese che prevede espressamente la decadenza del deputato che cambia partito e gruppo (art. 160.1, lett. c), e di altri ordinamenti nei quali regole costituzionali e soprattutto parlamentari differenziano, come nel Parlamento europeo, riducendoli, i poteri (e le prerogative) dei rappresentanti non affiliati ad alcun gruppo (non prevedendo quello che in Italia si chiama “gruppo misto”), una rigida disciplina giuridica di gruppo non fa parte delle tradizioni dei parlamenti europei (anche se limitazioni di diversa natura, volte a limitare il c.d. transfughismo sono presenti in alcuni regolamenti: vedi per es. l’art. 27 del regolamento del Congreso de los diputados spagnolo). Nella prassi vi è una varietà considerevole di comportamenti: se non che la trasformazione del rapporto fra partiti, rappresentanza e cittadini sembra aver favorito un significativo incremento degli atteggiamenti autonomi dei singoli parlamentari, perfino in ordinamenti, come quello del Regno Unito, nei quali il dissenso dal proprio gruppo è stato tradizionalmente estremamente contenuto. Non a caso si parla di accresciuto ruolo dei c.d.backbenchers e si segnalano votazioni difformi rispetto alle indicazioni del whip sempre più frequenti[29]. Del resto nel settembre 2015 il Labour Party ha eletto leader un MP noto per aver votato diversamente dal gruppo centinaia di volte nella sua lunga carriera (pare cinquecento volte in trent’anni): ed anzi questo sembra essere stato non già un handicap ma un asset ai fini del successo. Sarebbe interessante al riguardo verificare quanto emerge dall’analisi della “narrativa” (come si usa dire) fatta propria o costruita dai mezzi di comunicazione negli anni recenti: limitandosi all’Italia, mi pare si possa affermare senza timore di smentita che emerge nitido l’affermarsi di un’ossessiva retorica che inneggia alle virtù del singolo parlamentare che vota rivendicando la propria “libertà” da ogni disciplina di gruppo, esprimendosi “secondo come la coscienza gli suggerisce” o – alternativamente – “secondo le aspettative dei suoi elettori”. Quasi la riscoperta, in un contesto completamente diverso, del parlamentarismo ottecentesco, prima che i partiti di massa facessero la loro irruzione sull’onda dell’allargamento del suffragio nelle assemblee rappresentative

Ma la tendenza dei parlamentari di alcune assemblee di regimi parlamentari a comportarsi come deputati due secoli fa o, nella migliore delle ipotesi, quasi fossero i membri del Congresso degli Stati Uniti, affermatasi in Italia già negli anni Settanta[30], ove si estendesse e si consolidasse, costituirebbe una minaccia molto seria al funzionamento del governo parlamentare: il quale non può fare a meno di maggioranze parlamentari solidali e leali nei confronti dell’esecutivo, le quali – tranne casi e circostanze eccezionali – ne sostengano l’indirizzo con continuità e senza imporre deviazioni o rallentamenti significativi. Non è un caso, del resto, che il Congresso degli Stati, con due camere paritarie (anche se a poteri non indifferenziati), sia il Parlamento del modello presidenziale per antonomasia, cioè di un’altra e diversa forma di governo (quella che non si fonda sul rapporto fiduciario).

Quanto ho qui ho sintetizzato genera un circuito che tende ad autoalimentarsi in più sensi: la frammentazione della rappresentanza impone intese ed accordi coalizionali fra forze diverse che tendono ad essere rappresentati da chi ne resta escluso (per scelta dei coalizzandi o per scelta autonoma) come manifestazioni emblematiche di quanto di deteriore caratterizza il modo tradizionale di far politica; ciò riduce spesso il consenso elettorale verso i partiti tradizionali e impone alleanze sempre più ampie, sempre più disomogenee, a volte basate solo sulla volontà o esigenza di tener fuori dal governo del paese le forzepopuliste (ieri: antisistema): na così si finisce col marginalizzare la funzione oppositiva e col rafforzare la convinzione populista secondo la quale una classe dirigente miope e chiusa dedita ai propri interessi particolari è disposta a tutto pur di conservare il potere, ignorando le reali esigenze dei cittadini.

Se alla frammentazione alimentata da sistemi elettorali non selettivi si aggiunge un progressivo allentarsi della disciplina di gruppo all’interno delle assemblee si comprende perché occorra, io credo, porsi la questione della perdurante funzionalità dei regimi parlamentari: come contrastare i fenomeni degenerativi indicati; come eventualmente cercare almeno di contenerne gli effetti negativi; come ulteriormente razionalizzare il parlamentarismo o come, infine, superarlo in tutto o in parte. In ogni caso si tratta di elaborare una strategia all’altezza delle esigenze di governo in questa fase storica: sapendo che – ancora una volta, sia pure in forme diverse dal passato – non è la forza eccessiva, ma sono la debolezza e l’inefficienza del potere democratico a minacciarne l’esistenza attraverso la diffusione di una sfiducia di massa così corrosiva che alla lunga potrebbe minarlo dall’interno rendendolo indifendibile dagli assalti del forze illiberali.

Appropriate leggi elettorali pensate non solo per ridurre la frammentazione ma eventualmente anche per trasformare, nelle diverse condizioni date, la minoranza più consistente in maggioranza parlamentare in grado (potenzialmente) di assecondare esecutivi efficaci (facendo però nel contempo salva la funzione rappresentativa); appropriate norme costituzionali, regolamentari e legislative volte a conciliare disciplina di partito e autonomia del singolo parlamentare; rafforzamento costituzionale ed eventualmente elettorale della figura di riferimento dell’indirizzo politico pro tempore preferito dal corpo elettorale; contestuale rafforzamento dell’opposizione in quanto tale come funzione indispensabile di una democrazia che permetta l’attivazione del circuito della responsabilità politica e periodiche alternanze: sono tutte soluzioni intorno alle quale sarà utile ragionare, possibilmente conservando quando di meglio caratterizza il governo parlamentare, cioè proprio la continua fluida collaborazione fra assemblea rappresentativa e gabinetto.

Non deve sorprendere, allora, che proprio nell’ordinamento che per primo in Europa ha denunciato strutturali difficoltà a far funzionare adeguatamente il modello parlamentare, dopo molti tentativi in parte falliti, siano infine state elaborate ipotesi e strumenti che cercano di dare una risposta al problema che ho qui posto (e che ben altri aveva posto prima di me, invano[31]). Anche per questa ragione sono del tutto fuori luogo i sorrisetti ironici con i quali è stata accolta l’idea che al modello italiano altri potrebbe un giorno non lontano guardare[32].

Diversamente il rischio è che si punti in direzione di soluzioni per nulla coerenti con le tradizioni parlamentari europee, senza che si possa così, peraltro, dare risposta alle questioni di cui qui abbiamo ragionato, che in ultima analisi si assumono in una sola, principale: come ricondurre ad unità i contrapposti interessi saldamente presenti nella società e nelle assemblee che la rappresentano, come garantire momenti virtuosi di indispensabile collaborazione in poliarchie nella quali la contrapposizione tende sempre più spesso a prevalere (tanto peggio laddove spirito di fazione e individualismo familistico influenzano i comportamenti sociali). Un problema storico dell’Italia, ma anche un nuovo grande problema dell’Europa del terzo millennio e degli ordinamenti politici nei quali essa è tuttora organizzata (nonché in prospettiva dell’UE): dunque anche dei suoi popoli.


* Professore di diritto pubblico comparato presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze; docente presso la Scuola di Scienze politiche “C. Alfieri”. Una prima versione di questo lavoro, aggiornata però solo all’agosto 2015 (questa tiene invece conto anche delle elezioni tenutesi da allora al marzo 2016: Portogallo, Polonia, Spagna, Eire), è stata pubblicata nel forum dei Quaderni costituzionali, vedi Rassegna di Forumcostituzionale, n. 12/2015

[1] Ho conosciuto il prof. Pegoraro quando eravamo entrambi ricercatori. Egli era già avviato a una brillante carriera accademica, che l’avrebbe portato ad affermarsi prima in Italia poi all’estero, soprattutto nell’America latina, come uno dei più brillanti comparatisti pubblici della sua generazione. Aveva appena pubblicato per i tipi della patavina Cedam un libro che ebbe presto un impatto significativo sul dibattito riformatore in Italia. Era stata da poco (1984) costituita la prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, la Commissione Bozzi, dal nome del suo presidente, l’anziano e prestigioso deputato liberale, già membro della Costituente, Aldo Bozzi. Il gruppo parlamentare repubblicano, del quale facevo parte, per iniziativa del suo presidente Adolfo Battaglia (poi a lungo ministro dell’industria), persona di profonda cultura, attentissimo ai contributi accademici di qualità, componente a sua volta della stessa Commissione e parlamentare eletto nella circoscrizione IX (Verona, Padova, Vicenza, Rovigo) volle incontrare l’allora giovane Lucio Pegoraro, vicentino, per discutere con lui del ruolo del governo in Parlamento, correttamente individuato (oltre trent’anni fa!) come uno dei punti deboli della forma di governo italiana. Infatti il libro era Pegoraro, Lucio, Il governo in Parlamento: l’esperienza della V Repubblica francese, Padova, Cedam, 1983: opera, come si vede, di diritto straniero (ma con ampia comparazione), che risultò in effetti, oltre che accademicamente valida, utilissima in concreto (come accade per i contributi davvero buoni). La relazione finale della Commissione Bozzi (29 gennaio 1985) avrebbe dedicato un paragrafo a “Il Governo e i suoi rapporti col Parlamento” e un secondo alle “Fonti normative” (che non a caso lo stesso Pegoraro avrebbe presto affrontato in un’opera successiva, per la stessa collana dell’Università di Padova, Le leggi organiche. Profili comparatistici, Padova, Cedam, 1990). Fu in quella circostanza, dunque, che incontrai l’Amico che omaggiamo con questi scritti. Mi piace sottolineare, che quando Pegoraro concorreva a diffondere la conoscenza dei poteri del governo in Parlamento nella Francia semipresidenziale della V Repubblica (lettera della Costituzione, regolamenti parlamentari e prassi), altri studiosi in Italia si baloccavano ancora con la tesi della presunta deriva bonapartista del regime d’Oltralpe (alcuni non hanno smesso; e hanno anzi trasferito la loro vis polemica contro qualsivoglia tentativo – in Italia – di rafforzare l’esecutivo: condizione necessaria, ma ovviamente non sufficiente, ritengo invece io, di una più incisiva azione dei pubblici poteri. Fra costoro quanti giudicano una pericolosa deriva autoritaria la forma di governo di comuni e Regioni [1993-1999] e quanti hanno giudicato una specie di attentato alla democrazia tutte le riforme della parte II della Costituzione ad oggi tentate, nessuna esclusa, ma in particolare quelle dei bienni 1997-1998, 2005-2006 e 2014-2016).

[2] Per un esempio di questa peraltro non nuova discussione vorrei rinviare al mio Rappresentare e governare. Da grande regola a tallone d’Achille del governo parlamentare, Firenze, Firenze U. Press, 2015 e alla risposta che alla prima versione di questo stesso articolo si legge in Floridia, Antonio, “Ma il ‘governo di una minoranza’ può ancora dirsi ‘democratico’? Italicum, modelli di democrazia, sistemi elettorali: alcune riflessioni a partire da un intervento di Carlo Fusaro”, in Rassegna di Forumcostituzionale, n. 2/2016, il cui titolo esemplifica bene la posizione alternativa alla mia: posizione che contesta sia legittimo trasformare per legge, attraverso il sistema elettorale, minoranze (in voti popolari) in maggioranze (in seggi parlamentari), almeno oltre una certa misura. Quest’ultima tesi, del resto, è quella fatta propria dalla Corte costituzionale italiana nella sent. 1/2014.

[3] Fusaro, Carlo, “Per una storia delle riforme istituzionali (1948-2015)”,Rivista trimestrale di diritto pubblico, a. XLV, fasc. 2, 2015, pp. 431-555 (incluse bibliografia e cronotavola annuale del periodo considerato).

[4] Votarono la fiducia a quel governo, e ne sostennero l’azione parlamentare, oltre alla Dc, il partito comunista, il partito socialista, il partito repubblicano, il partito socialista democratico e il partito di raccolta degli italiani di lingua tedesca del Südtirol, la Svp. Contro si schierarono solo i 35 deputati della destra neofascista, il Msi, sei demoproletari, cinque liberali e quattro radicali. Al Senato, ché in Italia titolare del rapporto fiduciario è anche quello (in attesa delle auspicate riforme), addirittura, la maggioranza sfiorò il 95%!

[5] Nominato dal I° governo Berlusconi (1994) e confermato dal I° governo D’Alema (1999), Mario Monti era stato per due mandati componente della Commissione Ue.

[6] V. Fusaro, Carlo, “La formazione del governo Monti e il ruolo del presidente della Repubblica”, in Bosco, Anna e McDonnel, Duncan (a cura di), Politica in Italia. Edizione 2012, Bologna, il Mulino, pp. 83-100.

[7] Di qui il formarsi, trasformarsi e sciogliersi continuo di gruppi nelle due Camere, specie al Senato e specie nel campo del centro-destra, frequentemente collocatisi a soccorso del governo e delle sue iniziative: ovvero prima di tutto a difesa della durata della legislatura, anche sotto l’influenza virtuosa delle disposizioni del 2011 e 2012 che subordinano il riconoscimento del vitalizio a cinque anni di mandato effettivo.

[8] Uso una formula relativamente inconsueta perché con essa desidero coprire tutte le fattispecie che sono varie, a ben vedere: si va da ordinamenti nei quali il regime parlamentare è disciplinato in modo da poter funzionare all’occorrenza senza maggioranza (si pensi alla Svezia dal 1976 che consente governi di minoranza), agli ordinamenti nei quali il governo non può neanche nascere se non sulla base di una positiva manifestazione di volontà del Parlamento (penso ovviamente al caso italiano, ma v. anche quello rumeno), cioè mostrando di essere dotato di una maggioranza per c.d. precostituita e strutturale. Il minimo comun denominatore di tutte le forme di governo parlamentari (e appunto anche di quelle semipresidenziali, che infatti parte della dottrina, per esempio in molti paesi anglosassoni e in Germania, non riconosce come categoria a sé) è il potere giuridico dell’assemblea politica di dismettere il governo: all’esecutivo non si chiede necessariamente di esser dotato di una maggioranza attiva (efficiente), ma di non averne una attivamente contraria non disposta, quanto meno, a tollerarne la sopravvivenza. V. Fusaro, Carlo, Rappresentare e governare da grande regola a tallone d’Achille del governo parlamentare, Firenze University Press, Firenze, 2015

[9] Le agenzie di rating considerano attentamente il funzionamento del sistema politico istituzionale di ciascun paese: e la cosa non dovrebbe sorprendere.

[10] V. Oliver, Dawn, “The United Kingdom”, in Oliver, Dawn and Fusaro, Carlo, How Constitutions Change, Oxford, Hart, 2011, pp. 329-355.

[11] V. Fusaro, Carlo, “Regno Unito: l’accordo conservatori-liberaldemocratici alla base del governo Cameron. Qualche spunto di interesse costituzionale”, in www.forumcostituzionale.it., 15 maggio 2010.

[12] V. Turpin, Colin, British Government and the Constitution. Text, Cases and Materials, Vth ed., Cambridge, Cambridge U. Press, 2002, p. 448. Ma anche, in Italia, Torre, Alessandro, “Il Cabinet System da Tatcher a Blair:leadership e Costituzione”, in Torre, Alessandro e Volpe, Luigi (a cura di), La Costituzione britannica. The British Constitution, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 307-354.

[13] Le Divellec, Armel, “Un tournant de la culture constitutionnelle britannique”, in Jus Publicum, n. 7/2012 a proposito del Fixed-term; Caravale, Giulia, “La formazione del governo britannico in caso di hung Parliament”, in www.forumcostituzionale, 27 aprile 2015.

[14] Harvey, Nick, “After the rose garden. Harsh lessons for the smaller coalition party about how to be seen and heard in government”, inhttp://www.instituteforgovernment.org.uk/publications/after-rose-garden, 2 febbraio 2015, p. 24.

[15] Un’analisi di grande interesse su questo punto specifico e su altri aspetti dell’evoluzione della forma di governo britannica si legge, anche se sotto un titolo forse troppo definitivo, in Chessa, Omar, “La fine del modello Westminster. Il nuovo parlamentarismo razionalizzato del Regno Unito”, inDiritto pubblico, n. 3/2015, pp. 809-865.

[16] Ipotizzo che tale maggioranza possa essere solo conservatrice, almeno nei tempi medi, perché buona parte delle vittorie del Labour nei decenni recenti sono state rese possibile solo dalla conquista di varie decine di seggi scozzesi.

[17] Cito da Caravale, Giulia, “Il Queen’s Speech 2015 e le prime difficoltà del governo Cameron”, in Nomos. Le attualità del diritto, n. 2, 2015.

[18] Cfr. Emmott, Bill, “Perché Londra ha paura degli stranieri”, in La Stampa, 2 settembre 2015.

[19] Si veda il par. su Principles of collective Cabinet government del The Cabinet Manual, p. 31.

[20] E’ in effetti proprio il partito conservatore l’epicentro parlamentare della divisione fra fautori ed avversari della permanenza nell’UE: al 24 marzo 2016 i componenti conservatori della Camera dei comuni a favore dell’uscita sono 130 su 293 mentre solo 7 laboristi su 222 lo sono, accanto agli 8 deputati DUP (Democratic unionist party Ireland). In tutto 146 sono gli MPs per uscire; 452 quelli per restare.

[21] Cfr. Gabriel, Markus, “E’ la Germania cosmopolita figlia di Kant”, intervista in Corriere della Sera, 6 settembre 2015.

[22] Col bel risultato di aver spappolato – letteralmente – la rappresentanza dei 96 componenti del PE letti in Germania, ora divisi fra tredici diversi partiti, sette dei quali (inclusi i neonazisti) con un solo seggio, con da 428.000 fino a soli 184.000 voti, in un paese che conta circa 62 milioni di elettori (07-0.3%).

[23] Infatti col 45.3% dei voti maggioritari e il 41.5% di quelli proprozionali, pur avvantaggiandosi come tutti gli altri partiti entrati nel Bundestag della clausola di svarramento al 5%, la Cdu/Csu ha avuto 311 seggi su 631 costretta a negoziare una coalizione con un altro gruppo.

[24] Ceccanti, Stefano, “La coalizione è finita. Bentornati a Westminster”, inQuaderni costituzionali, n. 3/2015. Il dilemma del partito cadetto di coalizioni non particolarmente omogenee sta in questo: esso è obbligato alla lealtà coalizionale, deve accettare – com’è inevitabile – la prevalenza programmatica del partner maggiore e si trova nella condizione o di apparire sleale (se pone ostacoli) o di apparire irrilevante. Una condizione difficilissima, destinata a diventare difficilmente tollerabile mano a mano che ci si avvicina ad elezioni.

[25] Non ci conterebbe neppure il leader della SPD, Sigmar Gabriel secondo quanto riportato da Der Spiegel del 13 marzo 2015. Le elezioni del marzo 2016 in alcuni Länder confermano la debolezza della Spd e la crescita di partiti non tradizionali, in particolare di AfD: segnalando potenziali trasformazioni del panorama partitico che – se tradotte a livello federale – accentueranno le difficoltà qui segnalate.

[26] Si può forse far risalire il nuovo stile adversariale negli Stati Uniti all’esperienza congressuale, come capogruppo e come Speaker della Camera dei rappresentanti, di Newt Gingrich (1989-1999).

[27] Il II° governo Leterme si dimise il 22 aprile 2010 e restò in carica fino al giuramento del governo Di Rupo, il 6 dicembre 2011: in altre parole il procedimento di formazione post-elettorale del governo durò 563 giorni, 19 mesi.

[28] Non ho preso in considerazione il Parlamento europeo. La forma di governo dell’UE è tuttora del tutto peculiare anche se passi avanti verso il parlamentarismo sono indubbiamente stati fatti. Ad ogni buon conto, l’attuale PE ha otto gruppi la cui consistenza percentuale è questa: Ppe 28.9%; Pse 25.3%; Cons. e rif. 9.8%; Alde 9.3%; Sin. eur /All verde nord 6.9%; Verdi 6.6%; Europa della libertà e dem. dir. 6.0%; Eur. delle nazioni 5.2%. L’1.9% sono non affiliati. L’attuale informale maggioranza è data dal primo, secondo e quarto gruppo per un totale di circa 63.5%: il vero cleavage è fra europeisti delle forze politiche tradizionali e gli altri gruppi (sinistre, verdi, euroscettici).

[29] Sul punto v. ancora Caravale, Giulia, “Il Queen’s Speech 2015…”, op. cit.

[30] Si leggano i due interventi di Antonio Baldassarre e Giuliano Amato in Aa. Vv., Attualità ed attuazione della Costituzione, Roma-Bari, Laterza, 1979 rispettivamente pp. 16-41 e pp. 79-89.

[31] Lo ammetto: il riferimento è alla legge elettorale 52/2015 e all’idea che essa possa trovare emuli. Che essa preveda una formula elettorale assai orginale e senza molti esempi al mondo è un dato di fatto. Ma forse, nel momento in cui se ne critica la proprietà di attribuire alla forza politica che vince le elezioni una maggioranza (teoricamente salda) di voti, si dimentica che proprio perché non si fonda su collegi uninominali, essa è suscettibile di garantire la presenza nella camera politica di un’ampia varietà di voci (tutte quelle che superino – a livello nazionale – lo sbarramento, che è al momento fissato nel 3% dei voti validi). Ciò impedisce che possa accadere come in altri ordinamenti dove forze con consenso popolare anche assai consistenti (del 10% ed oltre) ottengano una rappresentanza men che simbolica (il caso dell’Ukip alla Camera dei Comuni che conta su un solo seggio a fronte di niente meno che quasi 4 milioni di voti; solo un po’ meglio stanno i LibDem che con 2,5 milioni di voti di seggi ne hanno solo 8, mentre il Partito nazionale scozzese, con 1.5 milioni di voti, di seggi ne ha 56). Che la legge 52/2015 sia la lontana erede delle concezioni sulla forma di governo dell’ultimo Costantino Mortati, a me pare indubitabile: v. Mortati, Costantino, “Principi fondamentali. Art. 1”, in Branca, Giuseppe (a cura di),Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro italiano, 1975, pp. 35 ss. In quel testo il grande costituzionalista calabrese (costituente, vicepresidente della Corte costituzionale), richiamava adesivamente sia il Ferdinand Hermens di La democrazia rappresentativa, Firenze, Vallecchi, 1968, sia colui che aveva voluto far tradurre Hermens in Italia: Giuseppe Maranini che, per tipi dello stesso editore, aveva pubblicato negli stessi mesi la sua Storia del potere in Italia (1848-1967) opera in larga misura fondata sul nesso sistema elettorale – forma di governo.

[32] Il modello dell’Italicum assomiglia per aspetti significativi alla legge elettorale della Repubblica di San Marino del 2006 (sperimentata con successo due volte, nel 2008 e nel 2012): ad esso si sono ora ispirati i riformatori della forma di governo dell’Armenia. Qui il 6 dicembre 2015 ha avuto successo il referendum confermativo di una riforma che emenda largamente la Costituzione, trasformando il modello semi-presidenziale in modello parlamentare. Allo scopo di assicurare ugualmente la governabilità, l’art. 89 del testo contiene la previsione espressa di una legislazione elettorale a base proporzionale che assicuri la formazione di una maggioranza costruita con un maggioritario a due turni eventuali su base proporzionale: di qui l’attenzione all’Italicum in vista del varo del nuovo codice elettorale, in attuazione della nuova Costituzione (le prime elezioni con il nuovo sistema sono attese alla scadenza dell’attuale assemblea, nel 2017). Per informazioni in inglese sulle vicende armene, v. http://www.armenianow.com/, nonchéhttp://www.president.am/en/press-release/item/2015/12/07/President-Serzh-Sargsyan-speech-about-Constitutional-Reforms/. La bozza dell’Electoral Code of the Republic of Armenia si rintraccia in CLD-REF(2016)018, documento della Commissione di Venezia, Consiglio di Europa (Strasburgo, 22 febbraio 2016):http://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-REF(2016)005-e .

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