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https://www.radioradicale.it/scheda/592546/diritto-canonico-e-riforme-nella-chiesa

qui sotto l’intervento scrito

Non sono un esperto di diritto canonico, mi limito quindi a qualche osservazione puntuale.
La prima è la seguente: qualsiasi ramo del diritto ha una funzione servente, è una tecnica parziale di soluzione dei problemi. Bisogna quindi evitare di dogmatizzare, di ricercare un’impossibile compiutezza che la forma tradizionale del Codice porta(va) con sé. In fondo se la Dignitatis Humanae relativizza lo Stato come monopolista del bene comune questo ha anche riflessi interni nella Chiesa nel modo di concepire il diritto. Il Concilio Vaticano II non porta con sé nessuna tentazione anti-istituzionale e quindi non comporta una visione semplicistica di deistituzionalizzazione, di rinuncia all’uso dello strumento del diritto canonico. Tuttavia lo mette in crisi per vari profili. Ne fa un’esperienza societaria prima che autoritaria come ha spiegato Severino Dianich.
Verso chi esercitare questa funzione servente? Credo verso l’ecclesiologia del Vaticano II.

La seconda osservazione è quindi questa: noi stiamo cercando davvero un nuovo paradigma del diritto canonico, come spiega Fantappié. La causa prossima è il pontificato di Francesco come si spiega in particolare a pagina 10, ma la causa ultima è in realtà il Concilio Vaticano II come si spiega altresì a pag. 9 perché l’attuale pontificato ha riaperto questa finestra, dopo un sostanziale blocco di alcuni decenni, solo debolmente intaccato dalle quaranta modifiche incrementali richiamate a pag. 180. Non mi sfugge la loro importanza quantitativa e qualitativa, però se siamo ad invocare un cambio di paradigma è perché evidentemente quelle modifiche non hanno risolto nodi di fondo. Si sono aperti dei varchi, ma le mura sono ancora quelle precedenti.

La terza è l’identificazione dei contenuti di questo cambio di paradigma, che fondamentalmente coincidono con le istanze teologiche disattese del Vaticano II, un tema caro a Rahner. Qui mi sembra che Fantappié identifichi due aspetti di discontinuità molto importanti. Il primo è come si produce il diritto in una Chiesa che ha un’ecclesiologia di comunione. Si produce non solo dall’alto, dal Sovrano, ma in un processo sinodale (pag. 9). L’ecclesiologia di comunione è anch’essa giuridica (mi rifaccio qui alla nota distinzione di Acerbi), ma ha un altro modello di diritto e della sua produzione. Del resto, poteva la Chiesa del Concilio, una volta chiarita l’opzione preferenziale per la democrazia nella Gaudium et Spes, evitare di trarne conseguenze per analogia nella vita interna? Sinodalità è più che collegialità perché coinvolge tutti e non solo i vescovi e comporta un progressivo slittamento da un ruolo solo consultivo ad uno anche deliberativo. Non so se si possa dire che così conciliarità e sinodalità vengano in prospettiva a coincidere come credo sostenga Ruggeri: questo lo devono dire i canonisti. Però mi sembrerebbe sostenibile. La seconda è il riconoscimento del carattere policentrico, federale, sussidiario del diritto nella Chiesa e persino con le altre Chiese cristiane (pp. 184/187), fatto di principi generali e poi di norme distinte a seconda dei contesti non perché si debbano individuare delle eccezioni a una regola che resta tale, ma perché il diritto non vive di uniformità, ma anche e soprattutto del riconoscimento di differenze.
Detto ciò, ed è la quarta e ultima osservazione, molto altro ci manca per delineare un nuovo paradigma. Ovviamente quello che ci manca è legato a quale lettura si faccia delle istanze disattese del Vaticano II, a quanto si considerino ampie e motivate. Ne indico solo due perché obiettivamente sono già in agenda: la prima è che tutto il Codice è ancora impostato sul sacerdozio ministeriale, non valorizzando appieno il ruolo dei cristiani laici senza bisogno di ministerializzarli; il secondo p il ruolo della donna, perché la grande retorica sulla positività della differenza si è semplicemente aggiunta alla realtà della disuguaglianza anziché rimuoverla.

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