Roma, 28 febbraio relazione all’incontro ex membri Jeci (Jeunesse Etudiante Chrétienne Internationale)
di Stefano Ceccanti
Il titolo ci pone diverse questioni.
La prima è la differenza tra responsabilità sociologica e giuridica.
Credo di capire che si tratti della distinzione tra giudizi di valore (come i settori sociali più motivati vogliono affermare la responsabilità in termini etici) e di fatto (le concrete modalità di esercizio che si possono far valere nel diritto internazionale, un sistema prezioso anche se largamente imperfetto).
I primi ci servono a non accontentarci mai dei secondi e i secondi ci servono perché senza di essi la responsabilità gira comunque a vuoto.
La seconda è la questione relativa ai soggetti e con questa si entra direttamente nel tema. Di chi stiamo parlando?
Delle persone? Delle Ong? Degli Stati? Delle organizzazioni sovrastatali?
Procediamo secondo la logica della sussidiarietà.
Le singole persone, man mano che ci si allontana dalla dimensione locale, hanno uno scarso impatto, può essere imputata loro solo una responsabilità minima, anche se azioni personali coerenti contribuiscono significativamente a cambiamenti di mentalità, creano dinamiche molecolari.
Le Ong hanno un ruolo prezioso. Anche se nessuna realtà è priva di contraddizioni, la loro utilità, la loro responsabilità (anche se non legata ad elezioni) è dimostrata proprio dal fatto che negli ultimi anni sono soggette ad attacchi da parte di regimi solo parzialmente democratici, come quello ungherese, o da forze politiche con forti venature xenofobe che pur agiscono dentro democrazia consolidate, come la Lega di Salvini in Italia.
Indubbiamente la responsabilità degli Stati si è erosa ed in linea generale questo è un bene. Recentemente la Corte costituzionale italiana ha messo in discussione l’immunità degli Stati esteri rispetto alla giurisdizione civile di un altro Stato per i danni prodotti a causa dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dai suoi organi nell’esercizio di poteri sovrani (nel caso specifico si trattava di azioni civili di risarcimento contro la Germania per le deportazioni, i lavori forzati e gli eccidi perpetrati dal Terzo Reich in Italia). Il mito dello Stato sovrano senza limiti è un mito che va nel senso dell’irresponsabilità.
“Il nazionalismo è la guerra”, ebbe a dire François Mitterrand e questo insegnamento non va mai dimenticato.
Per questo, prima di segnalare uno dei qualsiasi dei tanti limiti che hanno le organizzazioni sovrastatali, e molti ne hanno, dobbiamo sempre aver presente che senza di esse l’effettivo governo dei processi e dei conflitti sarebbe comunque decisamente più problematico.
Cosa sarebbe e cosa sarebbe stata questa nostra Europa senza istituzioni politiche comuni, senza un sistema di Corti, senza far parte di un’alleanza difensiva internazionale? Possiamo e dobbiamo certo insistere su una maggiore legittimazione degli organi di governo europeo, su una maggiore integrazione dei Paesi che hanno deciso di avere una moneta comune perché solo a questo livello si possono avere azioni realmente efficaci e responsabili ed anche le politiche migratorie e l’apertura al Sud del mondo possono essere effettivamente governate solo a livello sovranazionale. Altrimenti tutto si riduce ad una retorica di sovranità statuali impotenti, in un gioco a somma zero o addirittura a somma negativa.
E’ la sfida che ci vedrà impegnati in Europa a fine maggio, in queste grandi elezioni tra i portatori di paura e di speranza. Sappiamo bene quanti errori facciano e quanti limiti abbiano i portatori di speranza, ma sappiamo ben distinguerli, a cominciare dall’Italia, il Paese che oggi ci ospita, dai portatori di paura, da Salvini a Marine Le Pen, da Orban a Kaczynski, possiamo apprezzare sino in fondo quella nobiltà delle cause imperfette di cui parlava Emmanuel Mounier nella sua teoria dell’engagement. Dai nostri movimenti o comunque dal loro milieu sono passati Alcide De Gasperi e Robert Schuman, Tadeusz Mazowiecky e Louis Edmond Pettiti, Maria De Lourdes Pintasilgo e Gregorio Peces Barba, nonché Joaquin Ruiz-Gimenez. Questo ci impegna e ci colloca per un’integrazione più forte e migliore nella democrazia e nel diritto.
La rottura delle sovranità statali ha portato anche con sé i temi e i dilemmi dell’ingerenza umanitaria, della responsabilità per proteggere nell’imperfetto sistema delle Nazioni Unite, dove l’autorità legittima non gestisce direttamente l’uso della forza, dove il fine giusto deve comprendere anche un progetto per il futuro per i Paesi dove si possono decidere interventi di questa natura e dove la proporzionalità tra bene da difendere e male che si produce intervenendo deve essere sempre oggetto di attenta valutazione. Sono i criteri classici dell’insegnamento sociale della Chiesa, come definiti in particolare dopo il Concilio Vaticano II.
Il tema di questa rottura in nome dei diritti umani viene del resto da lontano, almeno dal Processo di Norimberga del 1945 contro i criminali nazisti. Uno strumento certo imperfetto, soprattutto perché espressione ex post dei Paesi vincitori della guerra.
Però da quella imperfezione, e grazie comunque ad essa, si è poi passati nel 2002, dopo i tribunali ad hoc sui crimini nella ex-Yugoslavia (1993) e sul Ruanda (1994) alla ben più complessa e adeguata Corte Penale Internazionale a L’Aja.
Anche se non tutti i paesi la riconoscono o ne sono membri, anche se le competenze della Corte sono limitati a crimini quali genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità e recentemente crimini di aggressione, appare evidente che l’esistenza della Corte è per molti paesi, ONG o persone un punto di riferimento per chiedere ed ottenere giustizia, ed avere riconosciuto lo statuto di vittima, passaggio necessario per le vittime di guerra e genocidi, affinché alla persecuzione non si aggiunga l’offesa dell’oblio.
Qual è allora la responsabilità internazionale che vogliamo affermare perfezionando queste realtà? Qual è la terra promessa che vogliamo raggiungere?
Ce lo spiega Micheal Walzer in “Esodo e rivoluzione”:
“L’Eden rappresenta la perfezione della natura e dell’uomo, mentre la terra promessa è solo un luogo migliore dell’Egitto..
Noi crediamo ancora..in quello che l’Esodo voleva insegnare..sul significato e la possibilità della politica e sulle sue giuste forme:
-primo, che ovunque si viva, probabilmente si vive in Egitto;
-secondo che esiste un posto migliore, un mondo più attraente, una terra promessa;
-e terzo, che la strada che porta alla terra promessa attraversa il deserto. L’unico modo di raggiungerla è unirsi e marciare insieme.”
Responsabilité internationale: sociologique, juridique et institutionnelle
Le titre nous pose plusieurs questions.
La première est la différence entre responsabilité sociologique et responsabilité juridique.
Je crois comprendre qu’il s’agit de la distinction entre les jugements de valeur (comme les secteurs sociaux les plus motivés qui veulent affirmer leur responsabilité en termes éthiques) et de fait (les moyens concrets de l’exercer qui peuvent être affirmés en droit international, un système précieux même si largement imparfait).
Les premiers nous servent à ne jamais être satisfaits des seconds, alors que nous avons besoin des seconds car, sans eux, la responsabilité serait toujours vide.
La seconde est la question liée aux responsables eux-mêmes et avec cela on entre directement dans le sujet.
De qui parle-t-on? De personnes? Des ONG? Des états? D’organisations supranationales?
Procédons selon une logique de subsidiarité.
Les individus, s’éloignant de la dimension locale, ont peu d’impact et ne il peut leur être imputée qu’une responsabilité minimale, même si des actions personnelles cohérentes contribuent de manière significative aux changements de mentalité et créent une dynamique moléculaire.
Les ONG jouent un rôle précieux. Même si aucune réalité n’est sans contradiction, leur utilité, leur responsabilité (même si elle n’est pas liée à des élections) est clairement démontrée par le fait qu’elles ont été attaquées au cours des dernières années par des régimes partiellement démocratiques, tels que le régime hongrois, ou des forces politiques à fortement xénophobes, qui agissent toutefois dans le cadre d’une démocratie consolidée, comme la LegSalvini en Italie.
Sans aucun doute, la responsabilité des États s’est affaiblie, en général, cela est positif. Récemment, la Cour constitutionnelle italienne a contesté l’immunité d’États étrangers en ce qui concerne la compétence civile d’un autre État pour les dommages causés par les crimes de guerre et les crimes contre l’humanité commis par ses organes dans l’exercice de pouvoirs souverains (plus précisément, il s’agissait de recours civils contre l’Allemagne pour expulsions, travaux forcés et meurtres perpétrés par le Troisième Reich en Italie). Le mythe de l’État souverain sans limites est un mythe qui va dans le sens de l’irresponsabilité.
“Le nationalisme, c’est la guerre”, déclarait François Mitterrand.
Cet enseignement ne doit jamais être oublié. Pour cette raison, avant de signaler les nombreuses limitations des organisations supranationales, et beaucoup d’entre elles en ont, nous devons toujours penser que, sans elles, la gouvernance efficace des procès et des conflits serait de toute façon plus problématique.
Que serait et qu’aurait été notre Europe sans institutions politiques communes, sans système de Cours, sans faire partie d’une alliance de défense internationale? Nous pouvons et devons certainement insister sur une plus grande légitimité des instances dirigeantes européennes, sur une plus grande intégration des pays qui ont décidé d’avoir une monnaie commune, car c’est seulement à ce niveau que nous pourrons disposer d’actions véritablement efficaces et responsables, tandis que les politiques en matière de migration, de sécurité et d’ouverture au Sud du monde ne peuvent en réalité être régies qu’au niveau supranational. Autrement, tout se résume à une rhétorique de la souveraineté impuissante des États, dans un jeu à somme nulle ou même à somme négative.
C’est le défi qui fera que nous serons engagés en Europe à la fin du mois de mai, dans ces grandes élections, qui sont à la fois porteurs de peur et d’espoir. Nous savons bien combien d’erreurs commettent et combien de limites ont les porteurs d’espoir. Mais nous savons bien les distinguer des porteurs de la peur, en commençant par l’Italie, le pays qui nous héberge aujourd’hui, de Salvini à Marine Le Pen, d’Orban à Kaczynski. Nous pouvons pleinement apprécier la noblesse des causes imparfaites évoquées par Emmanuel Mounier dans sa théorie de l’engagement. Dans nos mouvements ou dans leur milieu sont passés Alcide De Gasperi et Robert Schuman, Tadeusz Mazowiecky et Louis Edmond Pettiti, Maria De Lourdes Pintasilgo et Gregorio Peces Barba, ainsi que Joaquin Ruiz-Gimenez. Cela nous engage et nous place pour une intégration plus forte et meilleure dans la démocratie et le droit.
La rupture des souverainetés d’État a également entraîné les thèmes et les dilemmes de l’ingérence humanitaire, de la responsabilité de protéger dans le système imparfait des Nations Unies, où l’autorité légitime ne gère pas directement l’emploi de la force, où le juste but doit comprendre également un projet pour l’avenir pour les pays où des interventions de cette nature peuvent être décidées et où la proportionnalité entre le bien à défendre et le mal produit par une intervention doit toujours faire l’objet d’une évaluation minutieuse. Ce sont les critères classiques de l’enseignement social de l’Église, définis notamment après le Concile Vatican II.
Le thème de cette rupture au nom des droits de l’homme vient de loin, du moins du procès de Nuremberg de 1945 contre des criminels nazis – un instrument certainement imparfait, d’autant plus qu’il s’agissait d’une expression ex post des pays vainqueurs de la guerre.
Mais à partir de cette imperfection, et en tout cas grâce à elle, on a ensuite adopté en 2002, après les tribunaux ad hoc sur les crimes de l’ex-Yougoslavie (1993) et du Rwanda (1994), la Cour pénale internationale, à La Haye, au mécanisme plus complexe et plus adéquat.
Même si tous les pays ne la reconnaissent pas ou n’en sont pas membres, même si la compétence de la Cour se limite aux crimes tels que le génocide, les crimes de guerre, les crimes contre l’humanité et les récents crimes d’agression, il est clair que l’existence de la Cour est, pour de nombreux pays, ONG ou personnes, un point de référence pour demander et obtenir justice, et pour avoir reconnu le statut de victime, passage nécessaire pour les victimes de guerre et de génocide, afin que l’oubli ne s’ajoute pas à la persécution.
Quelle est donc la responsabilité internationale que nous voulons affirmer en perfectionnant ces réalités? Quelle est la terre promise que nous voulons atteindre?
Micheal Walzer l’explique dans “Exode et révolution”:
“Eden représente la perfection de la nature et de l’homme, alors que la terre promise n’est qu’un meilleur endroit en Egypte.
Nous croyons toujours … à ce que l’Exode voulait enseigner … sur le sens et les possibilités de la politique et sur ses formes appropriées:
D’abord, où que vous viviez, vous vivez probablement en Égypte;
-deuxièmement, il y a un meilleur endroit, un monde plus attrayant, une terre promise;
-et troisièmement, que la route qui mène à la terre promise traverse le désert. Le seul moyen de l’atteindre est de s’unir et de marcher ensemble. ”