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  1. Riflessioni empiriche suggerite dal titolo che è centrato sulla partecipazione elettorale

La partecipazione non è solo elettorale, ma noi sappiamo che le nostre sono democrazie rappresentative e quindi la partecipazione elettorale alle elezioni per scegliere i rappresentanti è la più decisiva di tutte. Non a caso il Governo Draghi ha commissionato un rapporto più di 200 pagine alla Commissione D’Incà-Bassanini che si può leggere qui:

https://www.riformeistituzionali.gov.it/media/1420/libro-bianco-edprovvisoria-13042022.pdf

 

Il titolo allarmato parte forse dal dato recente più significativo: nelle ultime politiche la partecipazione al voto è caduta in un solo colpo (questo è il problema) di 9 punti percentuali, dal 73 al 64 per cento. Moltissimo per un intervallo di 4 anni e mezzo anche se le Politiche restano le elezioni per le quali si vota di piu’. Però nel 2008 si era ancora a circa l’80 per cento.

Com’è noto la partecipazione elettorale sale a seconda dell’ordine di importanze dell’elezione.  Per tutte le altre elezioni ci siamo ormai abituati a livelli intorno al 50 per cento (ultime europee 2019 54%) e decisamente di meno per i referendum. Nel complesso la partecipazione è quindi spesso intermittente. Un altro fattore chiave di questa intermittenza è l’incertezza del risultato, che favorisce la partecipazione: può forse essere colto qui il calo brusco di settembre scorso dove il cdx era strutturato in modo maggioritario e vincente (tre liste distanti ma coalizzate) e il versante opposto frazionato in tre pezzi (conformazione ancora attuale).

 

  1. Riforme quantitative: aggiornare la legislazione di contorno per limitare la quota di astensionismo non voluto

Tra i vari mutamenti che spingono all’astensionismo vi sono quelli sociali che portano ad una sorta di astensionismo non voluto, a cominciare dai motivi di studio e di lavoro che portano distanti dalle sedi di voto e da quelli di mobilità delle persone anziane. La Commissione D’Incà-Bassanini ha proposto tra l’altro:

  la digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali (election pass);

  la concentrazione delle scadenze elettorali in due soli appuntamenti annuali (election day);

  il voto anticipato presidiato, che consentirebbe all’elettore che prevedesse di avere difficoltà a recarsi al seggio nei giorni previsti per la votazione di potere esercitare il suo diritto di voto nei giorni precedenti l’elezione in qualunque parte del territorio nazionale, con le garanzie proprie del tradizionale procedimento elettorale;

  il voto, nel giorno delle elezioni, in seggi diversi dal proprio, ma collocati nella stessa circoscrizione o collegio elettorale;

  l’introduzione di misure di informazione e comunicazione;

  l’individuazione di sedi alternative agli edifici scolastici al fine di ospitare i seggi elettorali.

 

Accanto a queste riforme per così dire quantitative, relative alla legislazione di contorno, si possono poi porre riforme diverse, tese ad ampliare le forme di democrazia diretta, deliberativa, partecipativa, a cominciare dalle forme di referendum propositivo senza però scordarsi che si tratta pur sempre di correttivi ad una democrazia che resta rappresentativa e che quindi possono essere utilizzati per integrare, non per sostituire. Non sono panacee, ma correttivi limitati.

 

  1. Riforme qualitative: non per accrescere la quantità dei partecipanti, ma per rendere più forte l’impatto del voto

Il punto più rilevante della partecipazione, se si tratta di “rianimarla” non è però solo quella di espanderla a chi non vota, ma di renderla più incidente per chi vota, per renderne più forte l’impatto. Richiamo qui alcuni elementi motivati nel recente documento ‘laburista’ per il Congresso pD.

Qui va segnalato un grande scarto: la regolazione delle leggi elettorali e delle forme di governo per i livelli sub-nazionali è grosso modo comprensibile e stabile sin dagli anni ’90. Tra qualche mese celebreremo i 30 anni della legge sui sindaci. Nessuna struttura è di per sé priva di difetti, però si tratta di modelli consolidati in cui è chiaro cosa si chiede e cosa si dà all’elettorato in termini di scelta di rappresentanti e di Governi.

Viceversa le norme nazionali sul piano strettamente elettorali sono state più volte cambiate, quelle attuali appaiono difficilmente modificabili ma sono comunque contestati e convivono con norme costituzionali sulla forma di governo rimaste invariate e anch’esse contestate e con un bicameralismo a dimensioni più ridotte ma di ancor più difficile comprensione (tanto più quando si è imposto un monocameralismo di fatto).

Sul piano della scelta dei rappresentanti le liste bloccate appaiono delegittimate dall’uso che si è fatto della loro composizione, i collegi uninominali a un turno spartiti nelle coalizioni idem, ma prima di esse erano state contestate le preferenze con argomenti che non appaiono affatto superati sulla grande dimensione. Forse varrebbe la pena di ripensare ai collegi uninominali proporzionali del vecchio Senato e delle vecchie province.

Sul piano della scelta dei governanti l’esperienza sembra aver dimostrato che per la debolezza del sistema dei partiti le coalizioni post-elettorati non sono stabili e finiscono per spostare il sistema sulla supplenza del Presidente della Repubblica. Pertanto non sembrano esserci alternative praticabili a razionalizzare quanto è riemerso in questa tornata, ossia una legittimazione diretta della coalizione vincente e del suo Premier, meglio grazie a un ragionevole premio di maggioranza che consenta di scegliere un Governo restando distante dai quorum di garanzia, con qualche modifica costituzionale che disincentivi le crisi in corso di mandato. Spostando altresì sul Parlamento in seduta comune alcune importanti funzioni, come il rapporto fiduciario e rendendo il sistema quini più semplice e comprensibile.

 

 

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