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Parto anzitutto dai rilievi presentati in Commissione dalla pregiudiziale della senatrice De Petris e dalla senatrice Lo Moro

 

Il primo argomento sarebbe quello procedurale, come critica ex post a quanto avvenuto alla Camera per la questione di fiducia e per così dire preventiva a quanto potrebbe accadere anche in questo Senato. Si tratterebbe di una violazione della procedura definita “normale” dall’ultimo comma dell’articolo 72 della Costituzione.

La questione è stata affrontata dalla Corte costituzionale nella sentenza 31/1995, punto 6 del considerato in diritto, a proposito di una legge di conversione, affermando che “l’art. 72 della Costituzione affianca al procedimento ordinario di approvazione della legge alcuni procedimenti speciali, la cui disciplina viene affidata ai regolamenti parlamentari” rilevando poi che l’approvazione si fosse “perfettamente adeguata al rispetto delle previsioni regolamentari”.

I Regolamenti non hanno inteso l’ultimo comma dell’articolo 72 nel senso indicato dalla Sen. De Petris, intendendolo esclusivamente come riserva di assemblea e invece proibendo la questione di fiducia sostanzialmente sulle decisioni della vita interna dell’Assemblea.

Non sono mancate proposte di riforma del Regolamento inserimento di una o più materie, compresa quella elettorale, nell’elenco di quelle su cui la fiducia dovesse essere preclusa, ma esse per un verso dimostrano che ci sarebbe appunto bisogno di una riforma, non sarebbe sufficiente la via interpretativa, e, in genere, sono state associate a una limitazione del voto segreto alla Camera e a forme di corsia preferenziale per abbreviare i tempi, le due motivazioni classicamente utilizzate per il ricorso alla fiducia.

 

Il secondo argomento, esso invece sin qui non esaminato dalla Corte, sarebbe il codice di condotta del Consiglio d’Europa del 2003, secondo il quale si dovrebbe evitare la modifica delle leggi elettorali nell’anno precedente alle elezioni. Si tratta però, com’è noto, di una forma di soft law che, per quanto meritevole di attenzione specie in condizioni normali, nel caso di specie si scontra con la presenza di due leggi ritenute profondamente insoddisfacenti anche perché derivanti da interventi della Corte, la cui riforma è stata anche oggetto di ripetuti moniti da parte del Presidente della Repubblica, che ha pertanto autorevolmente ritenuta incongrua un’interpretazione più stringente della vincolatività del Codice.

 

Il terzo argomento attiene alle connessioni tra voto uninominale e di lista che lederebbe la libertà di voto, anch’esso sin qui non esaminato dalla Corte, e, più esattamente, si articola in due sotto-argomenti: il voto espresso nei confronti dei candidati nei collegi uninominali avrebbe effetti anche sulle liste collegate; il voto espresso nel collegio uninominale sarebbe indistinguibile da quello assegnato alla lista nel collegio plurinominale. Ora, trattandosi di candidati alla medesima Assemblea parlamentare, sia pure su due canali diversi, il legislatore può legittimamente operare sia nel collegare i voti sia nel renderli parzialmente o totalmente indipendenti. Dalla libertà del voto non si può dedurre una sorta di diritto costituzionale allo splitting. Le analogie che si fanno sono coi sistemi sub-nazionali dove si elegge direttamente il vertice dell’esecutivo e dove peraltro, anche in quei casi, tale opposta scelta non è comunque presentabile come costituzionalmente obbligata. In realtà la legge distingue i due voti e si limita a proibire il voto incoerente. Forme di collegamento, attraverso apparentamenti e scorpori, erano del resto presenti nelle leggi Mattarella.

 

Il quarto argomento è il trasferimento del voto a liste diverse coalizzate, nel caso che la lista votata non abbia superato la soglia dell’1 per cento. Anch’esso non è stato sin qui esaminato dalla Corte. Non si tratta però di una novità, ma di una conferma di quanto già previsto nella normativa vigente al Senato o a tutti i livelli in cui si prevedano coalizioni. Anzi, qui il legislatore è intervenuto per restringere tale eventualità ponendo il limite dell’1%.

 

Il quinto argomento è quello per il quale il meccanismo delle pluricandidature finirebbe per violare il principio della parità nella rappresentanza di genere. Le pluricandidature, invece, hanno già formato oggetto dell’intervento della Corte nella sentenza 35/2017 che ha censurato solo il meccanismo delle opzioni, ossia “l’opzione arbitraria affida (ta) irragionevolmente alla decisione del capolista” trasformando quindi il sorteggio da criterio sussidiario in criterio ordinario.. La legge non ripristina le opzioni, come invece si afferma nell’intervento, ma introduce un meccanismo meritocratico. Il principio di pari opportunità affermato dall’articolo 51 non mira a creare, come ha più volte chiarito la Corte, un’uguaglianza di risultato, per cui la sua invocazione non è sufficiente a censurare detto meccanismo.

 

Passiamo quindi agli argomenti del senatore Crimi.

 

Il primo è relativo all’irragionevolezza del sistema perché esso combinerebbe alcuni incentivi forti (una parte di eletti in collegi uninominali maggioritari) bilanciati da altri deboli (soglie di sbarramento basse, ricorso alle candidature in più collegi e possibilità di abbinare i candidati nei collegi uninominali a una pluralità di liste nel collegio plurinominale), favorendo così la formazione di coalizioni disomogenee, probabilmente destinate a scomporsi subito dopo le elezioni. Ora, a prescindere dalle pluricandidature, che sono interne alle varie formazioni politiche e che quindi non rilevano rispetto alla formula e al giudizio sul carattere debole della soglia del 3% (che è valutazione tipicamente politica), tutti i sistemi misti, che sono diffusi e in crescita, intendono appunto inserire incentivi che equilibrino rappresentanza e governabilità, il cui equilibrio concreto può essere discusso sul piano politico, ma non su quello costituzionale. Altrimenti si dovrebbe dedurre che la Costituzione impedisce sistemi misti e consente solo una scelta agli estremi.

 

Il secondo, quello dell’impossibilità per l’elettore di conoscere gli effetti del proprio voto a causa della distribuzione dei seggi all’interno delle coalizioni con il sistema proporzionale, riprende quanto già osservato dalla senatrice De Petris e già trattato. Se ci si riferisce, come pare, anche alla suddivisione pro quota dei voti al solo candidato uninominale sulle liste apparentate, tale meccanismo, che ricorda quello dello scorporo pro quota delle leggi Mattarella, risponde comunque a un’esigenza non trascurabile, per quanto opinabile. Se il legislatore esclude il voto incoerente rischia di trattare in modo diseguale il voto di elettori che si trovano di fronte a un candidato di collegio con una sola lista di appoggio (caso in cui sarebbe difficile non ammettere il trasferimento del voto) o con più liste. Il voto coerente, qualora lo si scelga, porta con sé l’esigenza di attribuire comunque il voto anche sul canale proporzionale.

 

Il terzo è quello della presunta reiterazione di vizi già censurati dalla Corte, ossia liste bloccate e pluricandidature. Tuttavia, come evidente dal testo della 1/2014, la Corte ha censurato solo liste bloccate lunghe che rendevano impossibile il rapporto eletti/elettori e ha invece ammesso quelle corte, già utilizzate del resto dalla legge Mattarella Camera. Testualmente ha bocciato la lunghezza delle liste della Calderoli perché “ non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali”. Qui ricorrono peraltro entrambi gli elementi richiamati dalla Corte: liste bloccate solo per una parte degli eletti e corte in circoscrizioni piccole. Come già detto, inoltre, la 35/2017 non ha affatto dichiarato incostituzionali le pluricadidature ma solo le opzioni che sono state eliminate.

 

Il quarto è quello del già citato Codice del Consiglio d’Europa che il senatore Crimi, aggiungendo ulteriori motivazioni, vorrebbe vincolante, perché di fatto sarebbe ricompreso tra le norme convenzionali e, quindi, attraverso l’art. 117.1 integrerebbe il parametro di costituzionalità. Esso, però, pur essendo stato considerato rilevante per la giurisprudenza della Corte Edu, non è stato comunque ritenuto come equiparato alle norme convenzionali. Pertanto l’integrazione non appare convincente.

 

 

 

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